Rebirth|Rebuild
Dal 24 Maggio 2014 al 23 Giugno 2014
Rutigliano | Bari
Luogo: Beluga art project space
Indirizzo: via Magenta 1
Orari: 18-20.30; chiuso domenica e giorni festivi
Curatori: Elisabetta Longo, Giuliana Schiavone
Telefono per informazioni: +39 347 5495188
E-Mail info: artgallery.beluga@gmail.com
Sito ufficiale: http://www.artgallerybeluga.com
Si inaugura sabato 24 maggio alle ore 19, negli spazi del Beluga art project space di Rutigliano diretto da Elisabetta Longo, la collettiva di arte contemporanea Rebirth|Rebuild, a cura di Elisabetta Longo con intervento critico di Giuliana Schiavone. Sono cinque gli artisti coinvolti nel progetto: Francesco Barbieri, Pierluca Cetera, Gianmaria Giannetti, Arianna Loscialpo, Irene Petrafesa, i cui lavori resteranno in esposizione sino al 23 giugno.
Rebirth/Rebuild. È questo il titolo della mostra promossa dal Beluga gallery che conferma attraverso questa iniziativa la sua linea di promozione e valorizzazione dell’arte contemporanea e dei suoi linguaggi. Rinascita e ricostruzione, i poli dalla cui alternanza scaturisce il procedere universale dell’arte, rappresentano i due estremi concettuali entro cui si sviluppa il senso di questa collettiva. La vita culturale è costellata da infinite rinascite e rinascenze, di fini e altrettanti inizi, in cui l’arte, puntualmente, nel tempo intermedio dell’attesa, si dedica a un recupero della sua essenza, dei suoi mezzi linguistici e della sua storia, riprendendo contatto con la matericità e con la consapevolezza di ciò che è stato, come se questa integrazione ideologica delle radici fosse necessaria per progredire, e la preesistenza fosse matrice della persistenza storica. Si potrebbe affermare che al rebirthing artistico corrisponda spesso un’operazione di rebuilding, una ricostruzione genetica e creativa della propria identità che passa necessariamente attraverso la gestualità.
Cinque artisti differenti entrano così in dialogo con il contesto spaziale, trascinando con sé tutta la specificità dei loro linguaggi, sovrapponendosi alla peculiarità cromatica dell’ambiente espositivo. Qui il rebuilding è un processo di ridefinizione reciproca basato su una libera dialettica con lo spazio e con le storie veicolate dalle opere perché l’arte ridefinisce assetti, riqualifica spazi e funzioni, e si sviluppa attraverso il confronto con l’alterità. Siamo tutti più o meno consapevolmente immersi in un’attività di rebuilding della nostra epoca, e la percezione della continuità tra i momenti del nostro vissuto passa attraverso un’interpretazione delle strutture spazio-temporali in cui siamo chiamati a operare.
Tra costruzione e dissolvimento sembrano sospese le dimensioni di Irene Petrafesa, come storie perennemente in bilico, in attesa di essere raccontate, esistite da sempre e ambientate in luoghi in cui l’identità spesso naufraga in sequenze visive emblematiche di una precarietà esistenziale. Il soggetto si lascia assorbire dallo sfondo morbido e ovattato delle composizioni, nel lento procedere all’interno della nebulosa dell’anima. Se potessimo udire queste voci, il suono che percepiremmo sarebbe fatto di silenzio rotto dalle stesure cromatiche che si sedimentano una sull’altra come memoria, in cui di tanto in tanto si insinua il segno, frutto di una gestualità rapida, istintiva com’è la sopravvivenza.
Nel tempo e nello spazio della sospensione che precede ogni rebirthing si collocano i soggetti femminili al centro della riflessione di Pierluca Cetera. Non figure oziose e omologate nelle epidermidi contro i fondali statici della mise en scène di contraddizioni sociologiche, così care all’artista pugliese, ma ritratti femminili, profili, volti in cui l’atteggiamento e il dettaglio superficiale sono proiezione di un’interiorità peculiare, come scansioni psichiche che emergono dallo sfondo e allo sfondo ritornano, stratigrafie dell’anima, i cui i sedimenti sono leggibili in controluce. Più che osservare lo spettatore esse indugiano, talvolta con le palpebre socchiuse, e la loro memoria scava e restituisce visioni, frutto di una fisionomia cognitiva ed emozionale autonoma. Soggette a un continuo rebuilding sono invece quelle terre di nessuno riprodotte da Francesco Barbieri, ubicate nelle periferie urbane, dimensioni liminari in cui passato e ipotetico futuro sembrano coincidere. Paesaggi industriali, urbani, tunnel, infrastrutture e aree ferroviarie appaiono catturati in tratti rapidi e sfuggenti, in passaggi cromatici di grande impatto. La complessità dei meccanismi urbani è espressa dalla sovrapposizione dei segni comunicativi, e, sebbene manchino tracce identitarie che alludano direttamente all’uomo e ai suoi umori, a parlare della storia collettiva e dell’alienazione del singolo è la sola cultura materiale. Può accadere, poi, che una smaterializzazione ludica delle coordinate spazio-temporali ricrei ambienti immaginari ma non troppo come quelli di Gianmaria Giannetti: composizioni in cui il dove è perennemente ricostruito a ogni sguardo, come visione da recuperare, fissare in equilibri sempre nuovi e mutevoli di colori e forme, in quel segno singolare che mette insieme identità antropomorfe e bidimensionali, masticate e immediatamente rigettate, come scatti fotografici spontanei sotto il profilo cromatico, efficaci nella loro adesione a una logica dell’assurdo che tenta di interpretare una contingenza che non si farebbe cogliere altrimenti. Infine, attinge dalla realtà fenomenica Arianna Loscialpo per elaborare entità singolari, tormentate ed ermetiche nella forma materiale e psichica, eppure autonome, perfettamente in grado di palesare la propria condizione, come emerse da un caos indistinto e già sulla via del ritorno a quell’archetipo che le ha generate: esse sono e non sono più in un certo senso, perse nella ricerca di un equilibrio con l’altro, con il Sé e lo spazio.
Rebirth/Rebuild. È questo il titolo della mostra promossa dal Beluga gallery che conferma attraverso questa iniziativa la sua linea di promozione e valorizzazione dell’arte contemporanea e dei suoi linguaggi. Rinascita e ricostruzione, i poli dalla cui alternanza scaturisce il procedere universale dell’arte, rappresentano i due estremi concettuali entro cui si sviluppa il senso di questa collettiva. La vita culturale è costellata da infinite rinascite e rinascenze, di fini e altrettanti inizi, in cui l’arte, puntualmente, nel tempo intermedio dell’attesa, si dedica a un recupero della sua essenza, dei suoi mezzi linguistici e della sua storia, riprendendo contatto con la matericità e con la consapevolezza di ciò che è stato, come se questa integrazione ideologica delle radici fosse necessaria per progredire, e la preesistenza fosse matrice della persistenza storica. Si potrebbe affermare che al rebirthing artistico corrisponda spesso un’operazione di rebuilding, una ricostruzione genetica e creativa della propria identità che passa necessariamente attraverso la gestualità.
Cinque artisti differenti entrano così in dialogo con il contesto spaziale, trascinando con sé tutta la specificità dei loro linguaggi, sovrapponendosi alla peculiarità cromatica dell’ambiente espositivo. Qui il rebuilding è un processo di ridefinizione reciproca basato su una libera dialettica con lo spazio e con le storie veicolate dalle opere perché l’arte ridefinisce assetti, riqualifica spazi e funzioni, e si sviluppa attraverso il confronto con l’alterità. Siamo tutti più o meno consapevolmente immersi in un’attività di rebuilding della nostra epoca, e la percezione della continuità tra i momenti del nostro vissuto passa attraverso un’interpretazione delle strutture spazio-temporali in cui siamo chiamati a operare.
Tra costruzione e dissolvimento sembrano sospese le dimensioni di Irene Petrafesa, come storie perennemente in bilico, in attesa di essere raccontate, esistite da sempre e ambientate in luoghi in cui l’identità spesso naufraga in sequenze visive emblematiche di una precarietà esistenziale. Il soggetto si lascia assorbire dallo sfondo morbido e ovattato delle composizioni, nel lento procedere all’interno della nebulosa dell’anima. Se potessimo udire queste voci, il suono che percepiremmo sarebbe fatto di silenzio rotto dalle stesure cromatiche che si sedimentano una sull’altra come memoria, in cui di tanto in tanto si insinua il segno, frutto di una gestualità rapida, istintiva com’è la sopravvivenza.
Nel tempo e nello spazio della sospensione che precede ogni rebirthing si collocano i soggetti femminili al centro della riflessione di Pierluca Cetera. Non figure oziose e omologate nelle epidermidi contro i fondali statici della mise en scène di contraddizioni sociologiche, così care all’artista pugliese, ma ritratti femminili, profili, volti in cui l’atteggiamento e il dettaglio superficiale sono proiezione di un’interiorità peculiare, come scansioni psichiche che emergono dallo sfondo e allo sfondo ritornano, stratigrafie dell’anima, i cui i sedimenti sono leggibili in controluce. Più che osservare lo spettatore esse indugiano, talvolta con le palpebre socchiuse, e la loro memoria scava e restituisce visioni, frutto di una fisionomia cognitiva ed emozionale autonoma. Soggette a un continuo rebuilding sono invece quelle terre di nessuno riprodotte da Francesco Barbieri, ubicate nelle periferie urbane, dimensioni liminari in cui passato e ipotetico futuro sembrano coincidere. Paesaggi industriali, urbani, tunnel, infrastrutture e aree ferroviarie appaiono catturati in tratti rapidi e sfuggenti, in passaggi cromatici di grande impatto. La complessità dei meccanismi urbani è espressa dalla sovrapposizione dei segni comunicativi, e, sebbene manchino tracce identitarie che alludano direttamente all’uomo e ai suoi umori, a parlare della storia collettiva e dell’alienazione del singolo è la sola cultura materiale. Può accadere, poi, che una smaterializzazione ludica delle coordinate spazio-temporali ricrei ambienti immaginari ma non troppo come quelli di Gianmaria Giannetti: composizioni in cui il dove è perennemente ricostruito a ogni sguardo, come visione da recuperare, fissare in equilibri sempre nuovi e mutevoli di colori e forme, in quel segno singolare che mette insieme identità antropomorfe e bidimensionali, masticate e immediatamente rigettate, come scatti fotografici spontanei sotto il profilo cromatico, efficaci nella loro adesione a una logica dell’assurdo che tenta di interpretare una contingenza che non si farebbe cogliere altrimenti. Infine, attinge dalla realtà fenomenica Arianna Loscialpo per elaborare entità singolari, tormentate ed ermetiche nella forma materiale e psichica, eppure autonome, perfettamente in grado di palesare la propria condizione, come emerse da un caos indistinto e già sulla via del ritorno a quell’archetipo che le ha generate: esse sono e non sono più in un certo senso, perse nella ricerca di un equilibrio con l’altro, con il Sé e lo spazio.
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