A Palazzo Braschi dall'11 aprile al 19 agosto
Canaletto 1697-1768: capolavori dal mondo si incontrano a Palazzo Braschi
Canaletto, Il Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell’Ascensione, Venezia, 1729, olio su tela, 260,5 x 183 cm, Mosca, The Pushkin State Museum of Fine Arts, © The Pushkin State Museum of Fine Art, Moscow
Samantha De Martin
10/04/2018
Roma - “Il signor Canaletto dà notizia che ha dipinto la Rappresentazione del Chelsea College con Ranelagh House e il fiume Tamigi, che se qualche gentiluomo e altri hanno il piacere di favorirlo vedendo il quadro, egli li aspetterà nel suo alloggio, ogni giorno per quindici giorni a partire da oggi 31 luglio”. Era il 1751 e l’annuncio - attraverso cui il vedutista veneziano invitava le malelingue a visitare il suo studio di Londra per smentire le voci che fosse un impostore - proveniva dalle pagine del Daily Advertiser.
La tela in questione, tagliata in due parti prima del 1802 (la parte sinistra oggi di proprietà Blickling Hall, nel Regno Unito, quella di destra parte della collezione del Museo Nacional De Bellas Artes de l’Avana, eccezionalmente concessa in prestito dal governo cubano) è stata ricomposta e la si può ammirare per la prima volta a Roma - così come era uscita dal pennello del maestro - in occasione della mostra Canaletto 1697-1768 in corso al Museo di Roma di Palazzo Braschi fino al 19 agosto.
Una mostra «che resterà nella memoria», come ha spiegato anche la curatrice Bozena Anna Kowalczyk, e per varie ragioni. Innanzitutto perché presenta, in occasione dei 250 anni dalla morte dell’artista veneto, il più grande nucleo di opere mai esposto in Italia, 42 dipinti, nove disegni, e sedici tra libri e documenti di archivio. E poi perché ad accogliere i magnetici capolavori del maestro “lunatico e intrattabile, che vende un quadro da collezione fino a 120 zecchini” - come diceva di lui il mecenate Carl Gustaf Tessin - è il settecentesco Palazzo Braschi, custode non soltanto delle immagini di Roma e del suo patrimonio storico artistico, ma parte intregrante di quella città che trasformò il giovane Giovanni Antonio Canal da scenografo in spettacolare vedutista.
«La mostra, che ha richiesto una complessa organizzazione e oltre due anni di preparazione - ha spiegato Kowalczyk - vanta un allestimento decisamente poetico, che valorizza i gesti, gli spazi di Canaletto, facendoci penetrare pienamente nello spirito del Settecento e seguire passo passo la vita di questo artista rivoluzionario, maestro del capriccio».
Ed in effetti - complice forse la presenza del quartetto di archi che diffonde la sua musica nella sala nord di Palazzo Braschi, affacciata su una Piazza Navona che, come incorniciata da una luce diafana emerge, fluttuante, da un’epoca remota - sembra davvero di entrare e uscire dalle tele del maestro, catturati dai riflessi della laguna sotto Rialto, dal fragore del remo immerso nell’acqua dal gondoliere, dal brusio delle donne, dai sussurri degli innamorati, dalla poesia di Venezia, dai paesaggi inglesi, dalle rovine romantiche di Roma.
Concepito come un autentico dossier sulla personalità e la creatività di Canaletto, il percorso in otto sezioni è davvero un viaggio elegante che affascina ed emoziona.
Aggirandosi tra i quadri, in prestito da prestigiose collezioni internazionali, molte private - dalla Pinacoteca del Lingotto Giovanni e Marella Agnelli di Torino al Museum of Fine Arts di Budapest, dal Museo Pushkin di Mosca al Museo Nacional de Bellas Artes de l’Avana e ancora da istituzioni museali di Boston, Kansas City, Cincinnati - sembra quasi di respirare le atmosfere brillanti del genio che ha rivoluzionato il genere della veduta, ritenuto secondario fino ad allora, mettendolo alla pari con la pittura di storia e di figura.
C’è la Roma della giovinezza, racchiusa nei disegni, nei fantasiosi capricci archeologici, nelle tele percorse da rovine di templi e colonnati, ancora imbevute dello spirito teatrale e attraversate da sconsolate figure. C’è la Roma del Colosseo, di Santa Maria d’Aracoeli e il Campidoglio, della Basilica di Massenzio e l’Arco di Settimio Severo.
E c’è Venezia con le prime vedute, Il Canal Grande da nord, verso Ponte di Rialto e Il Canal Grande con Santa Maria della Carità - esposte, per la prima volta, assieme al manoscritto della Biblioteca Statale di Lucca che ne svela le circostanze relative alla commissione e alla realizzazione - fino al successo internazionale con le commissioni degli ambasciatori stranieri delle ampie tele che rappresentano le feste della Serenissima in loro onore. Ed ecco il Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell’Ascensione, con il nuovo naviglio dogale, sfavillante di sculture dorate, appena arrivato dal Museo Pushkin.
Una sezione del percorso è dedicata al rapporto tra Bernardo Bellotto, che porterà il nome e la lezione dello zio nel mondo, e Canaletto. I due artisti si separarono poco dopo il viaggio intrapreso insieme nel 1742 lungo il Brenta fino a Padova, la sola città italiana ritratta dal pittore, oltre a Venezia e a Roma. Prato della Valle, Padova, proveniente dalla collezione di Giovanni Battista Tiepolo, è il più bel ricordo di quell’avventura.
Non manca poi il periodo trascorso in Inghilterra, dove Canaletto - il cui genio versatile manifesta una grande capacità di adattamento e sperimentazione - trascorre nove anni, reagendo a una luce, a paesaggi e architetture diverse, ma anche a non poche diffidenze, tra imprevisti e sfortune. Come le voci denigratorie che giravano sul suo conto.
Scivolando tra le sale - una delle quali accoglie alcuni abiti d’epoca, parte delle collezioni del Museo di Roma di Palazzo Braschi - il visitatore ha come l’impressione di muoversi nell’atelier dell’artista, ammirando la sua abilità nell’afferrare la realtà per trasformarla con fantasia sbrigliata, piuttosto che fotografarla con distacco. Ed è con garbo e devota ammirazione che scruta l’ “atto di emencipazione di Canaletto dal padre” o ancora l’inventario dei suoi beni, redatto il 14 maggio del 1768, un mese dopo la morte dell’artista, e dove risultano, tra i vari oggetti, un “tabarro vecchissimo scarlatto” e uno “zamberlucco verde vecchio”.
E poco conta che la mostra abbia richiesto l’investimento di circa un milione di euro, con il 60% della spesa destinato al trasporto delle opere. L’impatto è forte e l’emozione nell’avvicinarsi alle tele - prive del solito sistema di allarme che impedisce allo sguardo di scrutare i dettagli - scavalca gli zeri.
“Fa in questo paese stordire universalmente ognuno che vede le sue opere, che consiste sul ordine di Carlevari ma vi si vede lucer entro il sole” scriveva nel 1725 il pittore Alessandro Marchesini al mercante lucchese Stefano Conti per esortarlo a non commissionare più opere al vedutista friulano Luca Carlevarijs ma a preferire il “Signor Antonio Canale”.
E forse “stordire” è la parola giusta per descrivere la sensazione al termine del percorso che affida il suo affascinante epilogo ai disegni realizzati negli ultimi anni. Ci sono Campo San Giacomo di Rialto e l’Incoronazione del doge sulla Scala dei Giganti che rappresenta qui la serie delle dodici Solennità dogali, ultimo capolavoro dell’artista.
I violini continuano a galoppare. Piazza Navona, fuori da Palazzo Braschi, appare trasfigurata. Assomiglia a una tela, bella e vibrante, che riconcilia l’anima con il mondo.
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La tela in questione, tagliata in due parti prima del 1802 (la parte sinistra oggi di proprietà Blickling Hall, nel Regno Unito, quella di destra parte della collezione del Museo Nacional De Bellas Artes de l’Avana, eccezionalmente concessa in prestito dal governo cubano) è stata ricomposta e la si può ammirare per la prima volta a Roma - così come era uscita dal pennello del maestro - in occasione della mostra Canaletto 1697-1768 in corso al Museo di Roma di Palazzo Braschi fino al 19 agosto.
Una mostra «che resterà nella memoria», come ha spiegato anche la curatrice Bozena Anna Kowalczyk, e per varie ragioni. Innanzitutto perché presenta, in occasione dei 250 anni dalla morte dell’artista veneto, il più grande nucleo di opere mai esposto in Italia, 42 dipinti, nove disegni, e sedici tra libri e documenti di archivio. E poi perché ad accogliere i magnetici capolavori del maestro “lunatico e intrattabile, che vende un quadro da collezione fino a 120 zecchini” - come diceva di lui il mecenate Carl Gustaf Tessin - è il settecentesco Palazzo Braschi, custode non soltanto delle immagini di Roma e del suo patrimonio storico artistico, ma parte intregrante di quella città che trasformò il giovane Giovanni Antonio Canal da scenografo in spettacolare vedutista.
«La mostra, che ha richiesto una complessa organizzazione e oltre due anni di preparazione - ha spiegato Kowalczyk - vanta un allestimento decisamente poetico, che valorizza i gesti, gli spazi di Canaletto, facendoci penetrare pienamente nello spirito del Settecento e seguire passo passo la vita di questo artista rivoluzionario, maestro del capriccio».
Ed in effetti - complice forse la presenza del quartetto di archi che diffonde la sua musica nella sala nord di Palazzo Braschi, affacciata su una Piazza Navona che, come incorniciata da una luce diafana emerge, fluttuante, da un’epoca remota - sembra davvero di entrare e uscire dalle tele del maestro, catturati dai riflessi della laguna sotto Rialto, dal fragore del remo immerso nell’acqua dal gondoliere, dal brusio delle donne, dai sussurri degli innamorati, dalla poesia di Venezia, dai paesaggi inglesi, dalle rovine romantiche di Roma.
Concepito come un autentico dossier sulla personalità e la creatività di Canaletto, il percorso in otto sezioni è davvero un viaggio elegante che affascina ed emoziona.
Aggirandosi tra i quadri, in prestito da prestigiose collezioni internazionali, molte private - dalla Pinacoteca del Lingotto Giovanni e Marella Agnelli di Torino al Museum of Fine Arts di Budapest, dal Museo Pushkin di Mosca al Museo Nacional de Bellas Artes de l’Avana e ancora da istituzioni museali di Boston, Kansas City, Cincinnati - sembra quasi di respirare le atmosfere brillanti del genio che ha rivoluzionato il genere della veduta, ritenuto secondario fino ad allora, mettendolo alla pari con la pittura di storia e di figura.
C’è la Roma della giovinezza, racchiusa nei disegni, nei fantasiosi capricci archeologici, nelle tele percorse da rovine di templi e colonnati, ancora imbevute dello spirito teatrale e attraversate da sconsolate figure. C’è la Roma del Colosseo, di Santa Maria d’Aracoeli e il Campidoglio, della Basilica di Massenzio e l’Arco di Settimio Severo.
E c’è Venezia con le prime vedute, Il Canal Grande da nord, verso Ponte di Rialto e Il Canal Grande con Santa Maria della Carità - esposte, per la prima volta, assieme al manoscritto della Biblioteca Statale di Lucca che ne svela le circostanze relative alla commissione e alla realizzazione - fino al successo internazionale con le commissioni degli ambasciatori stranieri delle ampie tele che rappresentano le feste della Serenissima in loro onore. Ed ecco il Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell’Ascensione, con il nuovo naviglio dogale, sfavillante di sculture dorate, appena arrivato dal Museo Pushkin.
Una sezione del percorso è dedicata al rapporto tra Bernardo Bellotto, che porterà il nome e la lezione dello zio nel mondo, e Canaletto. I due artisti si separarono poco dopo il viaggio intrapreso insieme nel 1742 lungo il Brenta fino a Padova, la sola città italiana ritratta dal pittore, oltre a Venezia e a Roma. Prato della Valle, Padova, proveniente dalla collezione di Giovanni Battista Tiepolo, è il più bel ricordo di quell’avventura.
Non manca poi il periodo trascorso in Inghilterra, dove Canaletto - il cui genio versatile manifesta una grande capacità di adattamento e sperimentazione - trascorre nove anni, reagendo a una luce, a paesaggi e architetture diverse, ma anche a non poche diffidenze, tra imprevisti e sfortune. Come le voci denigratorie che giravano sul suo conto.
Scivolando tra le sale - una delle quali accoglie alcuni abiti d’epoca, parte delle collezioni del Museo di Roma di Palazzo Braschi - il visitatore ha come l’impressione di muoversi nell’atelier dell’artista, ammirando la sua abilità nell’afferrare la realtà per trasformarla con fantasia sbrigliata, piuttosto che fotografarla con distacco. Ed è con garbo e devota ammirazione che scruta l’ “atto di emencipazione di Canaletto dal padre” o ancora l’inventario dei suoi beni, redatto il 14 maggio del 1768, un mese dopo la morte dell’artista, e dove risultano, tra i vari oggetti, un “tabarro vecchissimo scarlatto” e uno “zamberlucco verde vecchio”.
E poco conta che la mostra abbia richiesto l’investimento di circa un milione di euro, con il 60% della spesa destinato al trasporto delle opere. L’impatto è forte e l’emozione nell’avvicinarsi alle tele - prive del solito sistema di allarme che impedisce allo sguardo di scrutare i dettagli - scavalca gli zeri.
“Fa in questo paese stordire universalmente ognuno che vede le sue opere, che consiste sul ordine di Carlevari ma vi si vede lucer entro il sole” scriveva nel 1725 il pittore Alessandro Marchesini al mercante lucchese Stefano Conti per esortarlo a non commissionare più opere al vedutista friulano Luca Carlevarijs ma a preferire il “Signor Antonio Canale”.
E forse “stordire” è la parola giusta per descrivere la sensazione al termine del percorso che affida il suo affascinante epilogo ai disegni realizzati negli ultimi anni. Ci sono Campo San Giacomo di Rialto e l’Incoronazione del doge sulla Scala dei Giganti che rappresenta qui la serie delle dodici Solennità dogali, ultimo capolavoro dell’artista.
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