Itinerari d'arte
A Roma, sulle tracce di Rubens
Pieter Paul Rubens, Romolo e Remo, 1612 circa, olio su tela, 213 x 212 cm, Roma, Musei Capitolini
Samantha De Martin
04/12/2017
Roma - Saranno stati il Tevere, le antiche vestigia del Foro romano, i contrasti tra l’estrema povertà dei suoi abitanti e gli sfarzi esagerati dei palazzi. Ma a Rubens Roma rimase nel cuore, e anche nelle sue tele.
Eppure quello tra il maestro fiammingo ventitreenne e la città, che al tempo plaudeva alla fioritiura di Caravaggio, non fu un semplice incontro, un’occasione univoca di crescita. L’esuberanza cromatica, la fantasia sbrigliata, la teatralità del pittore di Siegen avrebbero creato nella città dei papi l’humus favorevole all’attecchire del barocco romano.
Affascinato dai racconti del padre, il giovane Pieter era partito per l’Italia in compagnia del fratello Philip, dove era giunto dopo cinque settimane di avventuroso viaggio. A Roma arrivò nel 1601, inviato da Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova, per il quale aveva accettato l’incarico di pittore di corte, per trovare la grande bellezza. E lui, in effetti, passeggiando tra il Foro Romano e Piazza del Popolo, osservando preti e cortigiani, abitanti e pellegrini, frequentando i ben sedici negozi di colori a quell'epoca in città, ammirava e carpiva, assorbendo come una spugna.
E poi a Roma c’era anche il pittore Paul Bril, amico del maestro, e c’era un quartiere, in via Margutta, dove i fiamminghi - noti per le loro sbronze e la compagnia chiassosa - erano di casa, e forse lì lo si sarebbe spesso potuto incontrare.
Durante il soggiorno romano Rubens ebbe modo di ampliare ulteriormente i suoi orizzonti figurativi, grazie alla copia di modelli di Michelangelo e Raffaello, allo studio dell'antico, senza trascurare la coeva produzione artistica del Carracci, di Caravaggio e di Federico Barocci.
Entro il 1602, realizzò per la cappella di Sant'Elena nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme il Trionfo di Sant'Elena, l’Incoronazione di spine e l’Innalzamento della croce. Tre opere che oggi purtroppo non è possibile ammirare perché vendute nel 1811.
Il capolavoro di Rubens alla Galleria Borghese
Di questo stesso periodo, in cui entra in contatto con la cerchia del cardinal Scipione Borghese, è anche il Compianto sul corpo di Cristo deposto (1602-1606), opera conservata alla Galleria Borghese e che condensa ed evidenzia la sintesi dei più disparati influssi subiti in Italia dal pittore nordico, dalla scuola veneta al manierismo romano e lombardo.
La lacrima di Maria Maddalena, raffigurata con un seno scoperto e una mano a tenere quella del Cristo esanime, sarà la stessa che il Bernini scolpirà sul volto della sua Proserpina, sempre alla Galleria Borghese. Una prova della grande influenza che l’artista fiammingo, noto per il suo stile eroico, avrà sui maestri italiani.
Il San Sebastiano alla Galleria Corsini
Tra i frutti risalenti ai primi anni del soggiorno romano dell’artista c’è poi il San Sebastiano curato dagli angeli (1601-1602) custodito alla Galleria Corsini, nell’omonimo palazzo settecentesco in via della Lungara.
In questo dipinto, l’ufficiale dell’esercito romano convertitosi alla fede cristiana - condannato a morte durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano, ma inizialmente salvato dall’intervento miracoloso degli angeli - è al centro della scena, ormai quasi completamente libero da corde e frecce. Nell’equilibrio della composizione, nei rimandi alla classicità dell’antica Roma, nelle linee sinuose e marcate delle figure dai toni caldi, oltre che nei vivaci svolazzi dei panneggi, si intravedono i tratti più caratteristici del periodo italiano dell’artista fiammingo.
La Madonna della Vallicella
Nel frattempo, il colto e fascinoso pittore fiammingo a Roma aveva incontrato gli uomini giusti, entrando anche in Vaticano.
Sempre in quegli anni, la Chiesa della Vallicella, detta tradizionalmente Chiesa Nuova, in via del Governo Vecchio, non lontano da Piazza Navona, gli aveva affidato la decorazione dell'abside. Si tratta della seconda commissione pubblica cui attese Rubens a Roma.
La Madonna della Vallicella è un dipinto su tavola d’ardesia realizato tra il 1606 e il 1608. Intorno alla nicchia che ospita l’immagine si posizionano cerchi concentrici di angeli e cherubini adoranti. L'insieme è completato da altri due dipinti su lastre di lavagna, collocati sulle pareti dell'ambiente che ospita l'altare, con i Santi Gregorio Magno, Papia e Mauro, sulla parete sinistra, e i Santi Flavia Domitilla, Nereo e Achilleo, sulla destra.
La scelta del Trittico con le tele in dialogo visivo tra loro fu forse suggerita a Rubens dall'analoga scelta compositiva messa in atto, pochi anni prima, da Annibale Carracci nella Cappella Salviati in San Gregorio al Celio.
I dipinti della chiesa Nuova sono le uniche opere eseguite da Rubens a Roma rimaste nella loro collocazione originaria.
Ai Musei Capitolini il commiato da Roma del maestro fiammingo
Dovette essere molto triste per Rubens accomiatarsi da Roma, da quell’immenso manuale, sapientemente studiato, interpretato e fatto proprio, che arricchì il pittore e allo stesso tempo fu nutrito dei suoi fecondi linguaggi. Ma il maestro lo fece sperando in un futuro ritorno e depositando il suo malinconico saluto nella sua personalissima interpretazione dell’origine di Roma.
Frutto di quell’addio fu infatti il Romolo e Remo, dipinto realizzato intorno al 1612 ad Anversa, nei primi anni successivi al suo ritorno dall’Italia, e trasferito nelle raccolte del Campidoglio nel 1750. Il nucleo centrale del dipinto - oggi alla Pinacoteca Capitolina - con la lupa che allatta Romolo e Remo, allude a un disegno che riproduce lo stesso soggetto, parte di un’antica scultura con la personificazione del Tevere, oggi al Louvre, studiato da Rubens a Roma quando il gruppo si trovava al Belvedere in Vaticano. Il disegno era appartenuto nel Seicento al celebre collezionista e religioso oratoriano, Sebastiano Resta.
L’intera composizione, dall’andamento solenne, è il frutto di una lettura attenta da parte di Rubens delle varie fonti iconografiche antiche e moderne, ma anche dei principali testi di autori classici, da Virgilio a Ovidio.
Un possente vecchio - personificazione del Tevere - giace accanto a una ninfa, mentre, dietro il Ficus Ruminalis, il pastore Faustolo accorre. In basso, un picchio, uccello caro a Marte, reca alcune ciliegie, come vuole anche la tradizione tramandata da Ovidio e da Plutarco.
Leggi anche:
• Le Fiandre celebrano gli ambasciatori fiamminghi. Da Rubens a Jan Fabre, il trionfo è del barocco
• Rubens si rifà il look. In coda per assistere
Eppure quello tra il maestro fiammingo ventitreenne e la città, che al tempo plaudeva alla fioritiura di Caravaggio, non fu un semplice incontro, un’occasione univoca di crescita. L’esuberanza cromatica, la fantasia sbrigliata, la teatralità del pittore di Siegen avrebbero creato nella città dei papi l’humus favorevole all’attecchire del barocco romano.
Affascinato dai racconti del padre, il giovane Pieter era partito per l’Italia in compagnia del fratello Philip, dove era giunto dopo cinque settimane di avventuroso viaggio. A Roma arrivò nel 1601, inviato da Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova, per il quale aveva accettato l’incarico di pittore di corte, per trovare la grande bellezza. E lui, in effetti, passeggiando tra il Foro Romano e Piazza del Popolo, osservando preti e cortigiani, abitanti e pellegrini, frequentando i ben sedici negozi di colori a quell'epoca in città, ammirava e carpiva, assorbendo come una spugna.
E poi a Roma c’era anche il pittore Paul Bril, amico del maestro, e c’era un quartiere, in via Margutta, dove i fiamminghi - noti per le loro sbronze e la compagnia chiassosa - erano di casa, e forse lì lo si sarebbe spesso potuto incontrare.
Durante il soggiorno romano Rubens ebbe modo di ampliare ulteriormente i suoi orizzonti figurativi, grazie alla copia di modelli di Michelangelo e Raffaello, allo studio dell'antico, senza trascurare la coeva produzione artistica del Carracci, di Caravaggio e di Federico Barocci.
Entro il 1602, realizzò per la cappella di Sant'Elena nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme il Trionfo di Sant'Elena, l’Incoronazione di spine e l’Innalzamento della croce. Tre opere che oggi purtroppo non è possibile ammirare perché vendute nel 1811.
Il capolavoro di Rubens alla Galleria Borghese
Di questo stesso periodo, in cui entra in contatto con la cerchia del cardinal Scipione Borghese, è anche il Compianto sul corpo di Cristo deposto (1602-1606), opera conservata alla Galleria Borghese e che condensa ed evidenzia la sintesi dei più disparati influssi subiti in Italia dal pittore nordico, dalla scuola veneta al manierismo romano e lombardo.
La lacrima di Maria Maddalena, raffigurata con un seno scoperto e una mano a tenere quella del Cristo esanime, sarà la stessa che il Bernini scolpirà sul volto della sua Proserpina, sempre alla Galleria Borghese. Una prova della grande influenza che l’artista fiammingo, noto per il suo stile eroico, avrà sui maestri italiani.
Il San Sebastiano alla Galleria Corsini
Tra i frutti risalenti ai primi anni del soggiorno romano dell’artista c’è poi il San Sebastiano curato dagli angeli (1601-1602) custodito alla Galleria Corsini, nell’omonimo palazzo settecentesco in via della Lungara.
In questo dipinto, l’ufficiale dell’esercito romano convertitosi alla fede cristiana - condannato a morte durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano, ma inizialmente salvato dall’intervento miracoloso degli angeli - è al centro della scena, ormai quasi completamente libero da corde e frecce. Nell’equilibrio della composizione, nei rimandi alla classicità dell’antica Roma, nelle linee sinuose e marcate delle figure dai toni caldi, oltre che nei vivaci svolazzi dei panneggi, si intravedono i tratti più caratteristici del periodo italiano dell’artista fiammingo.
La Madonna della Vallicella
Nel frattempo, il colto e fascinoso pittore fiammingo a Roma aveva incontrato gli uomini giusti, entrando anche in Vaticano.
Sempre in quegli anni, la Chiesa della Vallicella, detta tradizionalmente Chiesa Nuova, in via del Governo Vecchio, non lontano da Piazza Navona, gli aveva affidato la decorazione dell'abside. Si tratta della seconda commissione pubblica cui attese Rubens a Roma.
La Madonna della Vallicella è un dipinto su tavola d’ardesia realizato tra il 1606 e il 1608. Intorno alla nicchia che ospita l’immagine si posizionano cerchi concentrici di angeli e cherubini adoranti. L'insieme è completato da altri due dipinti su lastre di lavagna, collocati sulle pareti dell'ambiente che ospita l'altare, con i Santi Gregorio Magno, Papia e Mauro, sulla parete sinistra, e i Santi Flavia Domitilla, Nereo e Achilleo, sulla destra.
La scelta del Trittico con le tele in dialogo visivo tra loro fu forse suggerita a Rubens dall'analoga scelta compositiva messa in atto, pochi anni prima, da Annibale Carracci nella Cappella Salviati in San Gregorio al Celio.
I dipinti della chiesa Nuova sono le uniche opere eseguite da Rubens a Roma rimaste nella loro collocazione originaria.
Ai Musei Capitolini il commiato da Roma del maestro fiammingo
Dovette essere molto triste per Rubens accomiatarsi da Roma, da quell’immenso manuale, sapientemente studiato, interpretato e fatto proprio, che arricchì il pittore e allo stesso tempo fu nutrito dei suoi fecondi linguaggi. Ma il maestro lo fece sperando in un futuro ritorno e depositando il suo malinconico saluto nella sua personalissima interpretazione dell’origine di Roma.
Frutto di quell’addio fu infatti il Romolo e Remo, dipinto realizzato intorno al 1612 ad Anversa, nei primi anni successivi al suo ritorno dall’Italia, e trasferito nelle raccolte del Campidoglio nel 1750. Il nucleo centrale del dipinto - oggi alla Pinacoteca Capitolina - con la lupa che allatta Romolo e Remo, allude a un disegno che riproduce lo stesso soggetto, parte di un’antica scultura con la personificazione del Tevere, oggi al Louvre, studiato da Rubens a Roma quando il gruppo si trovava al Belvedere in Vaticano. Il disegno era appartenuto nel Seicento al celebre collezionista e religioso oratoriano, Sebastiano Resta.
L’intera composizione, dall’andamento solenne, è il frutto di una lettura attenta da parte di Rubens delle varie fonti iconografiche antiche e moderne, ma anche dei principali testi di autori classici, da Virgilio a Ovidio.
Un possente vecchio - personificazione del Tevere - giace accanto a una ninfa, mentre, dietro il Ficus Ruminalis, il pastore Faustolo accorre. In basso, un picchio, uccello caro a Marte, reca alcune ciliegie, come vuole anche la tradizione tramandata da Ovidio e da Plutarco.
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