Quattro lavori della collezione del Castello di Rivoli in mostra a Cuneo

E luce fu: secondo Balla, Fontana, Eliasson e Leotta

Olafur Eliasson, The Sun has no money (Il sole non ha soldi), 2008, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
 

La redazione

23/10/2020

Cuneo - La luce come opera d’arte, manipolata come se fosse in movimento o muta voce della coscienza interiore, ma anche microcosmo che racconta la magia del sole o simbolo di una geografia industriale in dialogo con il passato.
 
Il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la Fondazione CRC hanno presentato oggi E luce fu, mostra visitabile fino al 14 febbraio 2021 che raccoglie quattro importanti opere, parte del corpus della collezione permanente del Castello, realizzate da Giacomo Balla, Lucio Fontana, Olafur Eliasson e Renato Leotta.
Allestita presso il Complesso Monumentale di San Francesco a Cuneo, la mostra è parte del progetto di collaborazione volto a promuovere nel territorio cuneese la conoscenza di lavori di artisti di fama internazionale presentati dal museo.
 
L’allestimento, nonché il percorso espositivo suggerito dalle curatrici Carolyn Christov-Bakargiev, direttore dell’istituzione torinese, e Marcella Beccaria sono cronologici e raccontano quattro visioni di quattro artisti lontani tra loro in quattro momenti storici diversi.
 
Al centro della navata centrale della chiesa si incontra Feu d’artifice (Fuoco d’artificio), storica opera realizzata nel 1917 da Giacomo Balla (1871 - 1958), durante gli anni di adesione al Futurismo.
Presentata per la prima volta il 30 aprile 1917 al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro dell’Opera), l’opera consisteva in uno spettacolo teatrale nel quale Balla, sulle note di Igor’ Stravinskij e la regia dell’impresario dei Balletti russi Sergej Djagilev, attivava uno scenario i cui protagonisti erano i volumi geometrici luminosi. «Nel teatro romano l’artista aveva realizzato una sorta di danza senza danzatori», ha spiegato Carolyn Christov-Bakargiev. «I ballerini erano la luce stessa, quindi la quintessenza del movimento».
Quest’opera condensa il desiderio che accomunava Balla e Fortunato Depero (1892-1960), formulato nel Manifesto di ricostruzione futurista dell’universo di liberare l’arte nella vita, esaltando l’istinto ludico dell’uomo. «La luce per Balla è elemento da manipolare ed è funzionale a una messa in scena», ha precisato Marcella Beccaria. «L’opera era concepita per avere spettatori, esattamente come il teatro».
 
E laddove qui viene esaltato il movimento come fonte di vita, in Ambiente spaziale, 1967 di Lucio Fontana (1899 - 1968) si assiste a un viaggio interiore. Il lavoro era stato pensato per la mostra Lo spazio dell’immagine organizzata a Foligno nel 1967 (ed è stato poi ricostruito dall’assistente Gino Marotta per successive esposizioni). Il mondo rappresentato è interiore, psicologico. «Come Balla in fondo anche Fontana usa la tecnologia più innovativa della sua epoca», ha commentato la curatrice, «ovvero la luce ultravioletta che illumina il bianco e i colori più fluorescenti. Qui non siamo nel teatro in movimento, ma nella profondità dell’essere umano. Siamo come l’uomo in cima alla montagna che guarda le stelle».
 
E dalle stelle si passa al sole con Olafur Eliasson (1967) che nel 2008, quando si affacciava la crisi economico-finanziaria che ha stravolto il mondo creava: The Sun has no money (Il sole non ha soldi).
Ovvero un desiderio di energia universale, non quantificabile monetariamente. Un richiamo a una democrazia estetica della vita che libera gli esseri umani dai flussi del mercato.


Olafur Eliasson, The Sun has no money (Il sole non ha soldi), 2008, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino

Per l’installazione in mostra, Eliasson utilizza due fari da teatro, puntandone i potenti fasci luminosi su due strutture fatte da anelli concentrici in materiale acrilico. Azionati meccanicamente, gli anelli proiettano nello spazio molteplici ombre, producendo cerchi di luce colorata che disegnano forme inedite sulle pareti. L’ambiente diventa ipnotico e ricorda il mistero della luce che dà vita e attorno cui si muove la terra.
 
L’ultima opera in mostra si ricollega a quest’ultima anche nel titolo, Sole. Un lavoro recente di Renato Leotta (1982) che utilizza vecchi fari di automobili dismesse che illuminano dettagli dell’architettura e dell’impianto decorativo della chiesa.
Con questo lavoro l’artista non solo si pone in dialogo con il luogo, ma s’interroga sui cambiamenti sociali avvenuti in più parti del territorio piemontese che, da centro legato all’industria fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso si è trasformato in meta di una «cultura contemporanea dell’intrattenimento». «La sua ricerca ha un’ascendenza Duchampiana», ha concluso Christov-Bakargiev, «perchè pone l’accento sull’hic et nunc. I fari che illuminano alcuni punti della chiesa rappresentano un’opera agli antipodi rispetto all’interventismo di Balla. Lui si configura più come un artista/allestitore. Aggiunge una virgola a una poesia già scritta».


Renato Leotta, Sole, 2020, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino

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