Il giardino dell'arte. Opere, collezioni
Dal 27 Marzo 2022 al 24 Luglio 2022
Prato
Luogo: Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
Indirizzo: Viale della Repubblica 277
Orari: dal mercoledì alla domenica ore 11.00 – 20.00. Chiuso lunedì e martedì
Curatori: Stefano Collicelli Cagol
Costo del biglietto: intero 10 euro, ridotto 7 euro
Telefono per informazioni: +39 0574 531915
Sito ufficiale: http://www.centropecci.it
Dal 27 marzo al 24 luglio 2022 il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato presenta Il giardino dell’arte. Opere, collezioni, prima mostra curata dal neodirettore Stefano Collicelli Cagol, un percorso che si snoda nelle dieci sale dell’ala storica del museo tra opere realizzate da artiste e artisti italiani e internazionali di generazioni diverse.
Il titolo dell’esposizione evoca l’immagine del museo e del giardino, intesi non soltanto come luoghi dedicati alla cura e al ristoro ma anche come spazi della meraviglia in cui potersi immergere nella bellezza in tutte le sue forme.
Il paragone tra museo e giardino sottolinea il ruolo dell’arte come elemento essenziale per una comunità, e risponde al bisogno di confrontarsi con forme e immaginari nati nei momenti storici più complessi.
A popolare il giardino artistico sono opere provenienti dalla collezione del Centro Pecci e da collezioni private – il collezionare stesso è in sé un “atto di cura” per gli oggetti e le idee più disparate – accanto a lavori di un gruppo di artiste e artisti emergenti.
Dalle opere di Alberto Savinio, Osvaldo Licini, Alighiero Boetti e Alberto Burri, ad artiste contemporanee come Nan Goldin, Monica Bonvicini, Roni Horn e Marisa Merz, Il giardino dell’arte. Opere, collezioni presenta e rende accessibili al pubblico, negli spazi del Centro, opere di assoluta qualità museali, riportando l’attenzione dell’istituzione sul collezionismo, tema che verrà ulteriormente sottolineato dal futuro progetto di riallestimento della collezione permanente.
Artisti: Alighiero Boetti, Monica Bonvicini, Daniel Buren, Alberto Burri, Pedro Cabrita Reis, Marlene Dumas, Peter Fischli & David Weiss, Ryan Gander, Nan Goldin, Massimo Grimaldi, David Hammons, Roni Horn, Délio Jasse, Ragmar Kjartansson, Wilfredo Lam, Sara Leghissa, Osvaldo Licini, Paul Etienne Lincoln, Marisa Merz, Helen Mirra, Philippe Parreno, Carol Rama, Alberto Savinio, Shafei Xia, Andro Wekua. Sala I
La mostra Il giardino dell’arte. Opere, collezioni si apre con una sala dedicata al tema del volto, dove sono presenti alcuni protagonisti indiscussi della storia delle avanguardie insieme a Massimo Grimaldi. Wifredo Lam, di origine cubana, vissuto in Europa e per lunghi periodi ad Albissola Marina, nella sua conturbante natura morta, dichiara le influenze del movimento surrealista, declinato attraverso un immaginario afro- caraibico.
Di grande ispirazione per i surrealisti senza mai definirsi tale, fu Alberto Savinio, scrittore, critico, compositore e pittore. L’elemento del mostruoso o dell’indescrivibile sembra emergere anche nei protagonisti e nelle protagoniste dei quadri di Savinio, dove esseri dalle sembianze antropomorfiche ma con teste animalesche o con escrescenze, occupano lo spazio pittorico con l’eleganza del ritratto tradizionale. Il volto non finito di un suo quadro sembra dialogare con la testina di Marisa Merz, fragile per essere realizzata in argilla cruda ma al contempo monumentale nella sua presenza.
Una delle opere più conosciute di Osvaldo Licini, Marina (Notturno) richiama le atmosfere sospese dello sbarco sulla luna. Le geometrie e le astrazioni dei volti di Licini richiamano quelle dei volti che appaiono negli ultimi modelli di ipad utilizzati da Grimaldi come display per una riflessione sulla trasformazione dei tratti somatici dei soggetti attraverso la tecnologia digitale.
Sala II
Il volto torna protagonista nei 36 scatti di Cabinet Of, l’opera di Roni Horn che dispiega una serie di fotografie con il volto di un clown dalle fattezze difficilmente riconoscibili ma altrettanto convincenti nella loro capacità di restituire la complessa identità del soggetto. All’ambiguità è dedicata anche l’opera Untitled (Flannery), due blocchi di vetro fuso che celebrano il colore blu con le sue ricche connotazioni culturali (il blues in musica, o il riferimento alla depressione in inglese) e rendono omaggio a Flannery O’Conner (1925-1964), poetessa americana e figura dalla sessualità fluida a lungo confinata nel suo letto dal quale intratteneva una fitta corrispondenza con il resto del mondo.
Sala III
La scultura di Andro Wekua, con due esili e fragili gambe in cera che si muovono incerte su un plinto di ceramica, introduce alla terza sala. Il colore blu lascia spazio alle campiture bianche, ricordando il viaggio dell’artista a Faenza che ispirò le tonalità dell’opera.
L’opera di Monica Bonvicini, entrata nella collezione del Centro Pecci nel 2021 grazie al PAC, si intitola Structural Psychodrama e continua l’indagine dell’artista sui contesti architettonici e dei valori di cui sono portatori. L’opera è costituita da una catena che sostiene un lato della parete contraddicendone la sua funzionalità ma esplorandone le potenzialità formali. All’architettura guarda anche Pedro Cabrita Rei con una seconda opera in collezione del Centro Pecci che si confronta con la volumetria del libro attraverso materiali di scarto o recuperati dall’artista.
Sala IV
La dimensione umana della comunità di persone trans con i loro gesti quotidiani e i momenti di festa, amore e sesso è protagonista di una delle più importanti serie fotografiche di Nan Goldin. Realizzata tra gli anni Settanta e gli anni Novanta registra la vita della comunità di persone con le quali l’artista ha anche convissuto. La sala presenta anche due opere di Carol Rama, dove due figure femminili, attraverso il simbolo del peccato, il serpente, mettono a nudo le proprie estasi erotiche.
Sala V
Paul Etienne Lincoln crea una teca orologio in cui personaggi storici o inventati, che hanno tradito o sono stati traditi, vengono rappresentati attraverso un guanto ideato dall’artista. Attraverso questo indumento associato alla sfida, alla protezione, al celare ma anche alla distinzione, l’artista crea un sofisticato dispositivo narrativo che trova ulteriore approfondimento nelle biografie a parete dei protagonisti.
Sala VI
Gli indumenti tornano protagonisti anche nella sala VI, con il quadro di Marlene Dumas, Two Pieces, dove una figura femminile nera indossa un bikini bianco o l’opera di David Hammons che campeggia sulla parete centrale: sei sottovesti, non particolarmente preziose, evocano le sei sorelle dell’artista e le condizioni difficili in cui vivevano nell’infanzia ad Harlem, uno dei quartieri di New York.
Bianco Plastica appartiene a uno dei cicli più famosi di Burri, dove la sperimentazione con i materiali, in questo caso la plastica combusta, mantiene un fortissimo legame - il nitore formale, l’equilibrio compositivo - con la tradizione artistica italiana. A questa dimensione del fare dell’artista corrisponde la scultura del duo svizzero Fischli and Weiss. L’opera è parte di una più ampia installazione dedicata agli strumenti usati dagli artisti nel loro studio, riprodotti con certosina maniacalità tanto da sembrare reali. All’angolo opposto della sala, l’opera Kafka Complaints di Roni Horn presenta una selezione di parole a lettere rosse incastonate in blocchi di alluminio. Disposte con una configurazione casuale, spetta a chi guarda negoziarne il senso. Il taglio minimale del lavoro riecheggia nelle coperte militari bianche di Helen Mirra utilizzate per creare letteralmente un pavimento di nuvole.
Sala VII
La retorica del discorso pubblico e le forme di resistenza ad esso contrapposte emergono nella sala VII: un video di Ryan Gander che ironizza sulla ricetta della felicità proposta dal governo britannico per una pubblicità-progresso è esposto insieme ai Balloons Speech di Philippe Parreno, una serie di palloncini d’argento che in una cacofonia di pensieri, slogan, dialoghi, scontri occupa il soffitto della sala. Sono i pensieri di chi è passato? Forme di dialoghi a venire? L’opera fu ispirata all’artista da una manifestazione di protesta, dove gli slogan erano scritti all’interno dei balloon dei fumetti.
Sala VIII
Le voci diventano frasi leggibili in modo forte e chiaro negli struggenti poster di Sara Leghissa, che raccolgono e danno voce alla generazione di adolescenti che ha vissuto per due anni la DAD, un tempo sospeso che ha trovato poca rappresentazione nel discorso pubblico e nelle sue politiche. La retorica della guerra usata negli ultimi due anni riecheggia in un’opera storica di Alighiero Boetti che fa i conti con il ready made e l’idea di mimesis attraverso la riproposizione di un telo mimetico semplicemente intelaiato. A esso fa eco il motivo astratto di un telo a strisce di Daniel Buren dove l’artista è intervenuto con la pittura bianca in due punti. Quando intelaiato, il tessuto a strisce deve essere appoggiato al muro. L’eco delle azioni di Buren, che ripeteva il pattern delle strisce astratte nei suoi poster attaccati illegalmente a Berna in occasione della mostra When Attitudes Become Forms curata da Harald Szeemann, riporta alle azioni di Leghissa nelle sue azioni di attacchinaggio per le strade delle città con i suoi poster. Sala IX
Ragnar Kjartannsson racconta, nella videoinstallazione The End, lo struggente e malinconico potere della musica. L’artista e un amico sono i musicisti che si immergono in cinque scenari dalla natura apparentemente incontaminata delle Montagne rocciose, suonando una musica che viene assemblata nello spazio espositivo. Evocativa e potente, la videoinstallazione fu creata dall’artista in occasione del suo invito a rappresentare il padiglione islandese alla Biennale di Venezia del 2009.
Sala X
L’ultima sala della mostra sembra chiudere il cerchio rispetto alla prima sala. Shafei Xia, artista cinese che da diversi anni risiede a Bologna dove ha studiato all’accademia, propone nelle sue opere personaggi tra l’animalesco e il fiabesco che giocano tra loro con una libido sfrenata, rinnovando l’interesse per un mondo interspecista, oggetto delle fantasie di molte opere contemporanee.
Délio Jasse affronta il tema dell’archivio da una prospettiva decoloniale, facendo emergere con un uso accorto di parole e immagini ricombinate tra loro, il razzismo e la limitata capacità di comprendere il contesto africano nel quale si muovevano gli italiani colonizzatori fino alla metà del secolo XX.
Il giardino dell’arte vuole suscitare domande, fornire prospettive, sottolineare l’importanza delle collezioni private esposte in uno spazio pubblico e la rilevanza di opere in grado di narrare la contemporaneità e le sue complessità, grazie anche alla loro bellezza: un intento che continuerà a essere presente nella programmazione futura del Centro Pecci.
Il titolo dell’esposizione evoca l’immagine del museo e del giardino, intesi non soltanto come luoghi dedicati alla cura e al ristoro ma anche come spazi della meraviglia in cui potersi immergere nella bellezza in tutte le sue forme.
Il paragone tra museo e giardino sottolinea il ruolo dell’arte come elemento essenziale per una comunità, e risponde al bisogno di confrontarsi con forme e immaginari nati nei momenti storici più complessi.
A popolare il giardino artistico sono opere provenienti dalla collezione del Centro Pecci e da collezioni private – il collezionare stesso è in sé un “atto di cura” per gli oggetti e le idee più disparate – accanto a lavori di un gruppo di artiste e artisti emergenti.
Dalle opere di Alberto Savinio, Osvaldo Licini, Alighiero Boetti e Alberto Burri, ad artiste contemporanee come Nan Goldin, Monica Bonvicini, Roni Horn e Marisa Merz, Il giardino dell’arte. Opere, collezioni presenta e rende accessibili al pubblico, negli spazi del Centro, opere di assoluta qualità museali, riportando l’attenzione dell’istituzione sul collezionismo, tema che verrà ulteriormente sottolineato dal futuro progetto di riallestimento della collezione permanente.
Artisti: Alighiero Boetti, Monica Bonvicini, Daniel Buren, Alberto Burri, Pedro Cabrita Reis, Marlene Dumas, Peter Fischli & David Weiss, Ryan Gander, Nan Goldin, Massimo Grimaldi, David Hammons, Roni Horn, Délio Jasse, Ragmar Kjartansson, Wilfredo Lam, Sara Leghissa, Osvaldo Licini, Paul Etienne Lincoln, Marisa Merz, Helen Mirra, Philippe Parreno, Carol Rama, Alberto Savinio, Shafei Xia, Andro Wekua. Sala I
La mostra Il giardino dell’arte. Opere, collezioni si apre con una sala dedicata al tema del volto, dove sono presenti alcuni protagonisti indiscussi della storia delle avanguardie insieme a Massimo Grimaldi. Wifredo Lam, di origine cubana, vissuto in Europa e per lunghi periodi ad Albissola Marina, nella sua conturbante natura morta, dichiara le influenze del movimento surrealista, declinato attraverso un immaginario afro- caraibico.
Di grande ispirazione per i surrealisti senza mai definirsi tale, fu Alberto Savinio, scrittore, critico, compositore e pittore. L’elemento del mostruoso o dell’indescrivibile sembra emergere anche nei protagonisti e nelle protagoniste dei quadri di Savinio, dove esseri dalle sembianze antropomorfiche ma con teste animalesche o con escrescenze, occupano lo spazio pittorico con l’eleganza del ritratto tradizionale. Il volto non finito di un suo quadro sembra dialogare con la testina di Marisa Merz, fragile per essere realizzata in argilla cruda ma al contempo monumentale nella sua presenza.
Una delle opere più conosciute di Osvaldo Licini, Marina (Notturno) richiama le atmosfere sospese dello sbarco sulla luna. Le geometrie e le astrazioni dei volti di Licini richiamano quelle dei volti che appaiono negli ultimi modelli di ipad utilizzati da Grimaldi come display per una riflessione sulla trasformazione dei tratti somatici dei soggetti attraverso la tecnologia digitale.
Sala II
Il volto torna protagonista nei 36 scatti di Cabinet Of, l’opera di Roni Horn che dispiega una serie di fotografie con il volto di un clown dalle fattezze difficilmente riconoscibili ma altrettanto convincenti nella loro capacità di restituire la complessa identità del soggetto. All’ambiguità è dedicata anche l’opera Untitled (Flannery), due blocchi di vetro fuso che celebrano il colore blu con le sue ricche connotazioni culturali (il blues in musica, o il riferimento alla depressione in inglese) e rendono omaggio a Flannery O’Conner (1925-1964), poetessa americana e figura dalla sessualità fluida a lungo confinata nel suo letto dal quale intratteneva una fitta corrispondenza con il resto del mondo.
Sala III
La scultura di Andro Wekua, con due esili e fragili gambe in cera che si muovono incerte su un plinto di ceramica, introduce alla terza sala. Il colore blu lascia spazio alle campiture bianche, ricordando il viaggio dell’artista a Faenza che ispirò le tonalità dell’opera.
L’opera di Monica Bonvicini, entrata nella collezione del Centro Pecci nel 2021 grazie al PAC, si intitola Structural Psychodrama e continua l’indagine dell’artista sui contesti architettonici e dei valori di cui sono portatori. L’opera è costituita da una catena che sostiene un lato della parete contraddicendone la sua funzionalità ma esplorandone le potenzialità formali. All’architettura guarda anche Pedro Cabrita Rei con una seconda opera in collezione del Centro Pecci che si confronta con la volumetria del libro attraverso materiali di scarto o recuperati dall’artista.
Sala IV
La dimensione umana della comunità di persone trans con i loro gesti quotidiani e i momenti di festa, amore e sesso è protagonista di una delle più importanti serie fotografiche di Nan Goldin. Realizzata tra gli anni Settanta e gli anni Novanta registra la vita della comunità di persone con le quali l’artista ha anche convissuto. La sala presenta anche due opere di Carol Rama, dove due figure femminili, attraverso il simbolo del peccato, il serpente, mettono a nudo le proprie estasi erotiche.
Sala V
Paul Etienne Lincoln crea una teca orologio in cui personaggi storici o inventati, che hanno tradito o sono stati traditi, vengono rappresentati attraverso un guanto ideato dall’artista. Attraverso questo indumento associato alla sfida, alla protezione, al celare ma anche alla distinzione, l’artista crea un sofisticato dispositivo narrativo che trova ulteriore approfondimento nelle biografie a parete dei protagonisti.
Sala VI
Gli indumenti tornano protagonisti anche nella sala VI, con il quadro di Marlene Dumas, Two Pieces, dove una figura femminile nera indossa un bikini bianco o l’opera di David Hammons che campeggia sulla parete centrale: sei sottovesti, non particolarmente preziose, evocano le sei sorelle dell’artista e le condizioni difficili in cui vivevano nell’infanzia ad Harlem, uno dei quartieri di New York.
Bianco Plastica appartiene a uno dei cicli più famosi di Burri, dove la sperimentazione con i materiali, in questo caso la plastica combusta, mantiene un fortissimo legame - il nitore formale, l’equilibrio compositivo - con la tradizione artistica italiana. A questa dimensione del fare dell’artista corrisponde la scultura del duo svizzero Fischli and Weiss. L’opera è parte di una più ampia installazione dedicata agli strumenti usati dagli artisti nel loro studio, riprodotti con certosina maniacalità tanto da sembrare reali. All’angolo opposto della sala, l’opera Kafka Complaints di Roni Horn presenta una selezione di parole a lettere rosse incastonate in blocchi di alluminio. Disposte con una configurazione casuale, spetta a chi guarda negoziarne il senso. Il taglio minimale del lavoro riecheggia nelle coperte militari bianche di Helen Mirra utilizzate per creare letteralmente un pavimento di nuvole.
Sala VII
La retorica del discorso pubblico e le forme di resistenza ad esso contrapposte emergono nella sala VII: un video di Ryan Gander che ironizza sulla ricetta della felicità proposta dal governo britannico per una pubblicità-progresso è esposto insieme ai Balloons Speech di Philippe Parreno, una serie di palloncini d’argento che in una cacofonia di pensieri, slogan, dialoghi, scontri occupa il soffitto della sala. Sono i pensieri di chi è passato? Forme di dialoghi a venire? L’opera fu ispirata all’artista da una manifestazione di protesta, dove gli slogan erano scritti all’interno dei balloon dei fumetti.
Sala VIII
Le voci diventano frasi leggibili in modo forte e chiaro negli struggenti poster di Sara Leghissa, che raccolgono e danno voce alla generazione di adolescenti che ha vissuto per due anni la DAD, un tempo sospeso che ha trovato poca rappresentazione nel discorso pubblico e nelle sue politiche. La retorica della guerra usata negli ultimi due anni riecheggia in un’opera storica di Alighiero Boetti che fa i conti con il ready made e l’idea di mimesis attraverso la riproposizione di un telo mimetico semplicemente intelaiato. A esso fa eco il motivo astratto di un telo a strisce di Daniel Buren dove l’artista è intervenuto con la pittura bianca in due punti. Quando intelaiato, il tessuto a strisce deve essere appoggiato al muro. L’eco delle azioni di Buren, che ripeteva il pattern delle strisce astratte nei suoi poster attaccati illegalmente a Berna in occasione della mostra When Attitudes Become Forms curata da Harald Szeemann, riporta alle azioni di Leghissa nelle sue azioni di attacchinaggio per le strade delle città con i suoi poster. Sala IX
Ragnar Kjartannsson racconta, nella videoinstallazione The End, lo struggente e malinconico potere della musica. L’artista e un amico sono i musicisti che si immergono in cinque scenari dalla natura apparentemente incontaminata delle Montagne rocciose, suonando una musica che viene assemblata nello spazio espositivo. Evocativa e potente, la videoinstallazione fu creata dall’artista in occasione del suo invito a rappresentare il padiglione islandese alla Biennale di Venezia del 2009.
Sala X
L’ultima sala della mostra sembra chiudere il cerchio rispetto alla prima sala. Shafei Xia, artista cinese che da diversi anni risiede a Bologna dove ha studiato all’accademia, propone nelle sue opere personaggi tra l’animalesco e il fiabesco che giocano tra loro con una libido sfrenata, rinnovando l’interesse per un mondo interspecista, oggetto delle fantasie di molte opere contemporanee.
Délio Jasse affronta il tema dell’archivio da una prospettiva decoloniale, facendo emergere con un uso accorto di parole e immagini ricombinate tra loro, il razzismo e la limitata capacità di comprendere il contesto africano nel quale si muovevano gli italiani colonizzatori fino alla metà del secolo XX.
Il giardino dell’arte vuole suscitare domande, fornire prospettive, sottolineare l’importanza delle collezioni private esposte in uno spazio pubblico e la rilevanza di opere in grado di narrare la contemporaneità e le sue complessità, grazie anche alla loro bellezza: un intento che continuerà a essere presente nella programmazione futura del Centro Pecci.
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