Brescia | Museo di Santa Giulia dal 11 novembre 2023 al 28 gennaio 2024
Libere, come le donne dell'Iran
Sonia Balassanian, Unititled (Self Portrait), 1982, Rigo Saitta Collection - courtesy © the artist
Piero Muscarà
09/11/2023
Brescia - Anche nel 2023 l’appuntamento con l’arte contemporanea e i diritti civili è a Brescia dove la Fondazione diretta da Stefano Karadjov che riunisce i musei della città lombarda presenta un'importante mostra a tema dove protagoniste sono questa volta le donne iraniane e - in chiave più allargata - l’universo dell’arte “al femminile”.
Fondazione Brescia Musei presenta, dopo le tre potenti esposizioni messe a punto nel quadirennio 2019-2022 - quelle dell’artista curda Zehra Doğan (Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche, 2019), dell’artista e attivista cinese Badiucao (La Cina non è vicina, 2021) e lo scorso anno dell’artista e attivista russa Victoria Lomasko (The Last Soviet Artist, 2022) - una mostra collettiva divisa in due atti: uno dedicato all’arte femminile incentrato su una selezione di opere provenienti dalla Collezione della Associazione Genesi guidata da Letizia Moratti, e una seconda sezione più verticale che mette a fuoco il tema delle donne iraniane a cui tre artiste di generazioni diverse provano a dare voce.
Il titolo dell’esposizione che apre al Museo di Santa Giulia l’11 novembre e che resterà aperta al pubblico fino al 28 gennaio 2024 è Finché non saremo libere. Una dichiarazione di intenti che trae ispirazione dal quasi omonimo libro Finché non saremo liberi. Iran, la mia lotta per i diritti umani scritto da Shirin Ebadi - l’avvocatessa e pacifista iraniana esule dal 2009, prima donna musulmana Premio Nobel per la pace (2003).
Un tema forte, universale, quello dei diritti civili delle donne iraniane che assume un significato ancora più importante in questo 2023 dopo la proclamazione del Premio Nobel per la Pace che verrà conferito a Oslo il prossimo dicembre a Narges Mohammadi, l’attivista iraniana, vice-presidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani, imprigionata dalle autorità di Tehran nel maggio 2016 e ancora oggi in carcere "per la sua battaglia contro l'oppressione delle donne in Iran e per promuovere diritti umani e libertà per tutti". Una lotta di liberazione che ha visto assegnare anche il Premio Sacharov 2023 per la libertà di pensiero a Jina Mahsa Amini e al movimento di protesta iraniano "Donne, Vita, Libertà".
La mostra si sviluppa partendo da una sorta di introduzione ai temi dell’arte al femminile che riunisce una miscellanea di opere, alcune anche di pregio, che provengono dalla eterogenea collezione della Associazione Genesi e che fanno parte di Progetto Genesi. Arte e Diritti Umani un programma “interdisciplinare, itinerante e inclusivo” che coniuga momenti espositivi ed educativi con l’obiettivo di fornire un’educazione permanente in tema di diritti umani sotto la curatela di Ilaria Bernardi.
Morteza Ahmadvand (Khorramabad, Iran, 1981) Becoming, 2015, Installazione video (3 video a canale singolo) e sfera in fibra di vetro - Collezione Genesi, Milano - Ph. Francesco Allegretto. Courtesy Morteza Ahmadvand
Apre la lunga carrellata della vasta stanza dove si sviluppa la prima parte della mostra l’unica opera firmata da un uomo - Morteza Ahmadvand con la video installazione Becoming del 2015 e che si compone di tre video su singolo canale dove sono proiettati tre monoliti - che nell’immaginario dell’artista stanno a rappresentare le tre grandi religioni dei figli di Abramo, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam - che si specchiano di fronte a una sfera di vetro, che ovviamente simboleggia “the small beautiful blue planet”, un mondo dove tutti gli uomini al di là delle differenze dovrebbero convivere in armonia. Partiamo dunque con un bell’auspicio e un richiamo ad un mondo migliore e alla umana pacifica convivenza, argomenti che ben si sposano con il contesto di questi giorni a Brescia in cui si celebra il Festival della Pace (10-25 novembre 2023).
Poi è un susseguirsi di temi, idee e spunti i più diversi che sono accomunati dal fatto di essere - come ha spiegato la curatrice in conferenza stampa - proiezioni che nascono da una visione artistica dove lo sguardo su ogni cosa è quello delle donne.
Ed è con questo punto di vista che va affrontata la grande cavalcata attraverso questa prima parte dell’esposizione dove sono riunite una a fianco all’altra opere davvero molto dissonanti tra loro: dal buon selvaggio coperto di stracci di Collective Objects (2021) di Hangama Amiri, all’abitino di piastrelle “molto fifty” inventato dall’ucraina Zhanna Kadyrova (Made in Brazil Series #6 del 2014) all’abbraccio cartografico di Zehra Doğan che prende il nome di Kurdistan 3 e che è del 2020, fino all’immancabile Zanele Muholi con uno dei suoi intensi ritratti sul tema del black empowerment femminile (Day Inn Hotel, Burlington del 2017).
Una mise en place abbastanza nonsense se non fosse animata dalle buone intenzioni della curatrice che per fortuna decide di concludere questa introduzione didascalica con la più grande di tutte le donne artiste in mostra: Shirin Neshat che qui a Brescia porta la splendida e potente fotografia, due mani che spuntano dietro un nero chador e oltre i nudi polsi su cui è appoggiato un fucile. Mani spoglie, palmi rivolti quasi a pregare o forse a chiedere, su cui sono scritti in liquido inchiostro dei testi in farsi, parole per noi incomprensibili, ma inspiegabilmente belle a vedersi, e che - raccontano gli esperti - parlano di intimità, sessualità e femminismo. La fotografia, purtroppo qui presentata inguainata dietro un vetro dozzinale che però non riesce a mortificare lo splendore dell’immagine, è Stories of Martyrdom e fa parte della serie “Women of Allah” realizzata dalla Nejat nel 1994. Da sola vale la visita alla mostra.
Shirin Neshat, Stories of Martyrdom (Women of Allah series), 1994. New York, Glandstone Gallery
Superato il valico introdotto dalla Neshat si entra infine nel cuore, pulsante e vivissimo, della mostra bresciana. E' anche la parte dove meglio si esprime il lavoro curatoriale di Ilaria Bernardi, che adempiuto ai "doveri istituzionali" è qui libera di approfondire i temi più interessanti di ricerca, che parlano di donne e di Iran.
Le voci in questa sezione della esposizione sono tre e sebbene molto diverse tra loro, mostrano con forza l'essenza del problema, quello della condizione femminile a Teheran dopo la rivoluzione khomeinista del 1979.
Entrando, in una grande stanza blu, campeggiano le videoproiezioni di Farideh Lashai, un’artista, scrittrice e traduttrice iraniana nata nel 1944 e scomparsa prematuramente a Teheran nel 2013, conosciuta internazionalmente per i suoi dipinti astratti contemporanei che sono una combinazione di visioni tradizionali e contemporanee della natura. Farideh Lashai ha tenuto mostre personali in importanti musei nel mondo, come il British Museum a Londra, il Prado a Madrid e oggi molte fanno parte di prestigiose collezioni d’arte contemporanea tra cui quelle del Centre Georges Pompidou a Parigi e della Sharjah Art Foundation.
La sua è una figura di una attivista che pur guardando con forte spirito critico alla realtà del suo paese non si contrappose mai frontalmente al regime di Teheran. Fu infatti incarcerata per le sue convinzioni politiche prima della rivoluzione (e liberata in seguito) e solo nel 1984 - a causa della guerra tra Iraq e Iran del 1984 - decise di trasferirsi con la figlia negli Stati Uniti. Provata dalle difficili condizioni di vita americane e dalla perdita di familiari e amici, ritornerà dopo poco tempo a Teheran, dove al termine del conflitto nel 1988 ricomincerà ad esporre.
Qui a Brescia troviamo parte del suo più importante ciclo di opere: Rabbit in Wonderland ispirato ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll e che secondo molti è un modo, assai raffinato - da letterata quale la Lashai era (fu traduttrice di Brecht e di Pasolini) - per raccontare criticamente il suo paese senza incorrere nella scure della censura. Come avrebbe fatto un “dissidente interno”, ma con grazia e con un tocco poetico.
La sua opera si dispiega in un'atmosfera sospesa e fantastica, dove Lashai racconta la storia di un magico coniglio innocente, le cui avventure corrono da un dipinto all'altro e si svolgono in un paese delle meraviglie che è poi l’Iran. L’artista, presentando questa serie di opere nel 2010 a Dubai disse "Come nella tana di un coniglio, devi scavare e scavare nell'Iran per capire il paese. Tutto è sottosopra, quindi è una specie di gioco di logica. Cerco di giocare con il significato e l'astrazione”. Per noi occidentali è difficile comprenderne completamente i rimandi e i significati, ci sono riferimenti specifici alla storia dell’Iran - che nel catalogo della mostra edito da Skira sono in parte descritti in un saggio firmato da Delshad Marsous - che certamente ci sfuggono. Quello che rimane è però un senso magico di sospensione (come nella sua poetica opera, anche questa esposta, che consiste in una proiezione su cisterna d’acqua intitolata Catching the Moon del 2010) e un vago senso di nostalgia per un mondo che forse non ha mai avuto modo di esistere e che rimane nell’opera della Lashai in qualche modo sospeso tra il sogno e la realtà.
Sonia Balassanian (Arak, Iran, 1942, Untitled (Self Portrait) - 04, 1982 Collage e acrilici su carta Rigo Saitta Collection
Forte come un pugno nello stomaco è invece l’opera della star di questa esposizione Finché non saremo libere e che avrebbe ben meritato lo spazio di una monografica.
Parliamo dell’artista armena-iraniana Sonia Balassanian che pur nello spazio limitato dell’ultima parte dell’esposizione riesce da sola a dare un senso completo a tutto il progetto espositivo.
Nata nel 1942 ad Arak, in Iran, Balassanian vive e lavora tra New York e l'Armenia. Inizia la carriera come pittrice astratta, ma la sua ricerca artistica cambia radicalmente direzione dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini che pose fine al regime filo-occidentale dello shah Reza Pahlavi per instaurare il 1 aprile 1979 la Repubblica Islamica Iraniana. Da quel momento il lavoro della Balassanian si focalizza sulle urgenze sociali e politiche derivanti dalla drammatica situazione vissuta in prima persona, e in particolare sul tema della negazione dei diritti umani e sulla violenta ostilità del regime all'emancipazione femminile.
Le opere di Balassanian spaziano dalla videoarte alle installazioni, dai disegni ai dipinti e raccontano una catena infinita di sofferenza, resistenza, trauma, morte e il drammatico anonimato proprio della condizione dei deboli e degli oppressi. Le opere di Sonia Balassanian sono state esposte in rinomati musei come il MoMA di New York, e in importanti rassegne internazionali quali la Biennale di Venezia nel 2007 e la Biennale Istanbul nel 2015.
Qui a Brescia ne vediamo una potente selezione tra cui quattro delle più belle opere della serie Hostages realizzata nel 1980 e con cui Balassanian racconta la drammatica vicenda dei 52 ostaggi dell’Ambasciata statunitense a Teheran sequestrati dagli studenti rivoluzionari khomeinisti e liberati nel 1981 dopo l’insediamento di Ronald Regan a presidente degli Stati Uniti. Altra bellissima, e drammatica, sequenza - montata come i frame di una pellicola cinematografica - è la serie dei 18 autoritratti Unititled in cui via via, fotogramma dopo fotogramma, in un collage e acrilico su carta la Balassanian taglia, mutila, manda in mille pezzi il proprio viso velato dietro cui non è possibile nascondere quello sguardo accusatorio con cui si rivolge al pubblico di spettatori che guarda impassibile e silenzioso la sua oppressione.
Ancor più drammatica ed evocativa, se possibile, è la serie Brooding del 1988 di cui qui al Museo di Santa Giulia possiamo vedere 6 dipinti su carta. Acrilici che paiono nella loro eterea dimensione quasi acquarelli e che mettono in scena queste figure di fantasmi, corpi di cui intravediamo forme accennate e che sono sospese, ectoplasmatiche visioni di una umanità qui perduta, oppressa, disincarnata. Le figure che la Balassanian rappresenta nelle sue opere sono indifferenziate, non individuali, irreali, irriconoscibili come vere persone. Corpi che richiamano ai temi e alla condizione femminile in Iran, paese dove la Balassianian è cresciuta e dove spiega in un saggio Donald Kuspit “la donna era definita come una serva per scopi sessuali e generalmente domestici, una sorta di non-entità dal punto di vista musulmano. Essere armena e donna significa sentirsi doppiamente indesiderabili, di second'ordine, oppressi, irreali”.
Non meno importante è infine la triste installazione The Flock del 2008 fatta con 5 teste di pecora dorate i cui occhi guardano verso il basso due monitor dove a rotazione sono proiettati video di pecore al pascolo. Metafora anche non troppo difficile da comprendere e che rimanda ancora una volta al tema dell’agnello sacrificale, della vittima necessaria all’oppressore per affermare il proprio potere nel mondo.
Il percorso espositivo si conclude con due coinvolgenti interventi site-specific – Verbum e Respiro – realizzati dalla brava giovane artista iraniana, Zoya Shokoohi nel corso di una residenza a Brescia avviata dalla Fondazione Brescia Musei come parte della mostra stessa e come ideale apertura verso le future generazioni. La Shokoohi, che vive in Italia, ha accolto il pubblico dei visitatori presentando due opere performative, una prima Verbum ispirata all’idea di “mangiare” (letteralmente) una parola .. nel testo del catalogo si evoca l’idea di “mangiare la libertà” ma la parola fatta torta (per altro gustosa) era qui scritta in persiano e l’artista presente non ha voluto svelare l’arcano. Nella sala che seguiva la Shokoohi ha invitato i partecipanti a partecipare a Respiro, un performance il cui scopo è quello di trattenere per alcuni secondi un respiro nei polmoni per poi chiuderlo in un piccolo vasetto .. da aprire un giorno lì dove “serve aria da respirare”. Due performance leggere e che hanno rasserenato gli animi e che, pur nella loro dimensione artistica ancora un po’ embrionale e in nuce, fanno auspicare che altre donne libere, in Iran e nel mondo, possano guardare al futuro con speranza ed essere un giorno finalmente libere.
Fondazione Brescia Musei presenta, dopo le tre potenti esposizioni messe a punto nel quadirennio 2019-2022 - quelle dell’artista curda Zehra Doğan (Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche, 2019), dell’artista e attivista cinese Badiucao (La Cina non è vicina, 2021) e lo scorso anno dell’artista e attivista russa Victoria Lomasko (The Last Soviet Artist, 2022) - una mostra collettiva divisa in due atti: uno dedicato all’arte femminile incentrato su una selezione di opere provenienti dalla Collezione della Associazione Genesi guidata da Letizia Moratti, e una seconda sezione più verticale che mette a fuoco il tema delle donne iraniane a cui tre artiste di generazioni diverse provano a dare voce.
Il titolo dell’esposizione che apre al Museo di Santa Giulia l’11 novembre e che resterà aperta al pubblico fino al 28 gennaio 2024 è Finché non saremo libere. Una dichiarazione di intenti che trae ispirazione dal quasi omonimo libro Finché non saremo liberi. Iran, la mia lotta per i diritti umani scritto da Shirin Ebadi - l’avvocatessa e pacifista iraniana esule dal 2009, prima donna musulmana Premio Nobel per la pace (2003).
Un tema forte, universale, quello dei diritti civili delle donne iraniane che assume un significato ancora più importante in questo 2023 dopo la proclamazione del Premio Nobel per la Pace che verrà conferito a Oslo il prossimo dicembre a Narges Mohammadi, l’attivista iraniana, vice-presidente del Centro per la difesa dei Diritti Umani, imprigionata dalle autorità di Tehran nel maggio 2016 e ancora oggi in carcere "per la sua battaglia contro l'oppressione delle donne in Iran e per promuovere diritti umani e libertà per tutti". Una lotta di liberazione che ha visto assegnare anche il Premio Sacharov 2023 per la libertà di pensiero a Jina Mahsa Amini e al movimento di protesta iraniano "Donne, Vita, Libertà".
La mostra si sviluppa partendo da una sorta di introduzione ai temi dell’arte al femminile che riunisce una miscellanea di opere, alcune anche di pregio, che provengono dalla eterogenea collezione della Associazione Genesi e che fanno parte di Progetto Genesi. Arte e Diritti Umani un programma “interdisciplinare, itinerante e inclusivo” che coniuga momenti espositivi ed educativi con l’obiettivo di fornire un’educazione permanente in tema di diritti umani sotto la curatela di Ilaria Bernardi.
Morteza Ahmadvand (Khorramabad, Iran, 1981) Becoming, 2015, Installazione video (3 video a canale singolo) e sfera in fibra di vetro - Collezione Genesi, Milano - Ph. Francesco Allegretto. Courtesy Morteza Ahmadvand
Apre la lunga carrellata della vasta stanza dove si sviluppa la prima parte della mostra l’unica opera firmata da un uomo - Morteza Ahmadvand con la video installazione Becoming del 2015 e che si compone di tre video su singolo canale dove sono proiettati tre monoliti - che nell’immaginario dell’artista stanno a rappresentare le tre grandi religioni dei figli di Abramo, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam - che si specchiano di fronte a una sfera di vetro, che ovviamente simboleggia “the small beautiful blue planet”, un mondo dove tutti gli uomini al di là delle differenze dovrebbero convivere in armonia. Partiamo dunque con un bell’auspicio e un richiamo ad un mondo migliore e alla umana pacifica convivenza, argomenti che ben si sposano con il contesto di questi giorni a Brescia in cui si celebra il Festival della Pace (10-25 novembre 2023).
Poi è un susseguirsi di temi, idee e spunti i più diversi che sono accomunati dal fatto di essere - come ha spiegato la curatrice in conferenza stampa - proiezioni che nascono da una visione artistica dove lo sguardo su ogni cosa è quello delle donne.
Ed è con questo punto di vista che va affrontata la grande cavalcata attraverso questa prima parte dell’esposizione dove sono riunite una a fianco all’altra opere davvero molto dissonanti tra loro: dal buon selvaggio coperto di stracci di Collective Objects (2021) di Hangama Amiri, all’abitino di piastrelle “molto fifty” inventato dall’ucraina Zhanna Kadyrova (Made in Brazil Series #6 del 2014) all’abbraccio cartografico di Zehra Doğan che prende il nome di Kurdistan 3 e che è del 2020, fino all’immancabile Zanele Muholi con uno dei suoi intensi ritratti sul tema del black empowerment femminile (Day Inn Hotel, Burlington del 2017).
Una mise en place abbastanza nonsense se non fosse animata dalle buone intenzioni della curatrice che per fortuna decide di concludere questa introduzione didascalica con la più grande di tutte le donne artiste in mostra: Shirin Neshat che qui a Brescia porta la splendida e potente fotografia, due mani che spuntano dietro un nero chador e oltre i nudi polsi su cui è appoggiato un fucile. Mani spoglie, palmi rivolti quasi a pregare o forse a chiedere, su cui sono scritti in liquido inchiostro dei testi in farsi, parole per noi incomprensibili, ma inspiegabilmente belle a vedersi, e che - raccontano gli esperti - parlano di intimità, sessualità e femminismo. La fotografia, purtroppo qui presentata inguainata dietro un vetro dozzinale che però non riesce a mortificare lo splendore dell’immagine, è Stories of Martyrdom e fa parte della serie “Women of Allah” realizzata dalla Nejat nel 1994. Da sola vale la visita alla mostra.
Shirin Neshat, Stories of Martyrdom (Women of Allah series), 1994. New York, Glandstone Gallery
Superato il valico introdotto dalla Neshat si entra infine nel cuore, pulsante e vivissimo, della mostra bresciana. E' anche la parte dove meglio si esprime il lavoro curatoriale di Ilaria Bernardi, che adempiuto ai "doveri istituzionali" è qui libera di approfondire i temi più interessanti di ricerca, che parlano di donne e di Iran.
Le voci in questa sezione della esposizione sono tre e sebbene molto diverse tra loro, mostrano con forza l'essenza del problema, quello della condizione femminile a Teheran dopo la rivoluzione khomeinista del 1979.
Entrando, in una grande stanza blu, campeggiano le videoproiezioni di Farideh Lashai, un’artista, scrittrice e traduttrice iraniana nata nel 1944 e scomparsa prematuramente a Teheran nel 2013, conosciuta internazionalmente per i suoi dipinti astratti contemporanei che sono una combinazione di visioni tradizionali e contemporanee della natura. Farideh Lashai ha tenuto mostre personali in importanti musei nel mondo, come il British Museum a Londra, il Prado a Madrid e oggi molte fanno parte di prestigiose collezioni d’arte contemporanea tra cui quelle del Centre Georges Pompidou a Parigi e della Sharjah Art Foundation.
La sua è una figura di una attivista che pur guardando con forte spirito critico alla realtà del suo paese non si contrappose mai frontalmente al regime di Teheran. Fu infatti incarcerata per le sue convinzioni politiche prima della rivoluzione (e liberata in seguito) e solo nel 1984 - a causa della guerra tra Iraq e Iran del 1984 - decise di trasferirsi con la figlia negli Stati Uniti. Provata dalle difficili condizioni di vita americane e dalla perdita di familiari e amici, ritornerà dopo poco tempo a Teheran, dove al termine del conflitto nel 1988 ricomincerà ad esporre.
Qui a Brescia troviamo parte del suo più importante ciclo di opere: Rabbit in Wonderland ispirato ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll e che secondo molti è un modo, assai raffinato - da letterata quale la Lashai era (fu traduttrice di Brecht e di Pasolini) - per raccontare criticamente il suo paese senza incorrere nella scure della censura. Come avrebbe fatto un “dissidente interno”, ma con grazia e con un tocco poetico.
La sua opera si dispiega in un'atmosfera sospesa e fantastica, dove Lashai racconta la storia di un magico coniglio innocente, le cui avventure corrono da un dipinto all'altro e si svolgono in un paese delle meraviglie che è poi l’Iran. L’artista, presentando questa serie di opere nel 2010 a Dubai disse "Come nella tana di un coniglio, devi scavare e scavare nell'Iran per capire il paese. Tutto è sottosopra, quindi è una specie di gioco di logica. Cerco di giocare con il significato e l'astrazione”. Per noi occidentali è difficile comprenderne completamente i rimandi e i significati, ci sono riferimenti specifici alla storia dell’Iran - che nel catalogo della mostra edito da Skira sono in parte descritti in un saggio firmato da Delshad Marsous - che certamente ci sfuggono. Quello che rimane è però un senso magico di sospensione (come nella sua poetica opera, anche questa esposta, che consiste in una proiezione su cisterna d’acqua intitolata Catching the Moon del 2010) e un vago senso di nostalgia per un mondo che forse non ha mai avuto modo di esistere e che rimane nell’opera della Lashai in qualche modo sospeso tra il sogno e la realtà.
Sonia Balassanian (Arak, Iran, 1942, Untitled (Self Portrait) - 04, 1982 Collage e acrilici su carta Rigo Saitta Collection
Forte come un pugno nello stomaco è invece l’opera della star di questa esposizione Finché non saremo libere e che avrebbe ben meritato lo spazio di una monografica.
Parliamo dell’artista armena-iraniana Sonia Balassanian che pur nello spazio limitato dell’ultima parte dell’esposizione riesce da sola a dare un senso completo a tutto il progetto espositivo.
Nata nel 1942 ad Arak, in Iran, Balassanian vive e lavora tra New York e l'Armenia. Inizia la carriera come pittrice astratta, ma la sua ricerca artistica cambia radicalmente direzione dopo l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini che pose fine al regime filo-occidentale dello shah Reza Pahlavi per instaurare il 1 aprile 1979 la Repubblica Islamica Iraniana. Da quel momento il lavoro della Balassanian si focalizza sulle urgenze sociali e politiche derivanti dalla drammatica situazione vissuta in prima persona, e in particolare sul tema della negazione dei diritti umani e sulla violenta ostilità del regime all'emancipazione femminile.
Le opere di Balassanian spaziano dalla videoarte alle installazioni, dai disegni ai dipinti e raccontano una catena infinita di sofferenza, resistenza, trauma, morte e il drammatico anonimato proprio della condizione dei deboli e degli oppressi. Le opere di Sonia Balassanian sono state esposte in rinomati musei come il MoMA di New York, e in importanti rassegne internazionali quali la Biennale di Venezia nel 2007 e la Biennale Istanbul nel 2015.
Qui a Brescia ne vediamo una potente selezione tra cui quattro delle più belle opere della serie Hostages realizzata nel 1980 e con cui Balassanian racconta la drammatica vicenda dei 52 ostaggi dell’Ambasciata statunitense a Teheran sequestrati dagli studenti rivoluzionari khomeinisti e liberati nel 1981 dopo l’insediamento di Ronald Regan a presidente degli Stati Uniti. Altra bellissima, e drammatica, sequenza - montata come i frame di una pellicola cinematografica - è la serie dei 18 autoritratti Unititled in cui via via, fotogramma dopo fotogramma, in un collage e acrilico su carta la Balassanian taglia, mutila, manda in mille pezzi il proprio viso velato dietro cui non è possibile nascondere quello sguardo accusatorio con cui si rivolge al pubblico di spettatori che guarda impassibile e silenzioso la sua oppressione.
Ancor più drammatica ed evocativa, se possibile, è la serie Brooding del 1988 di cui qui al Museo di Santa Giulia possiamo vedere 6 dipinti su carta. Acrilici che paiono nella loro eterea dimensione quasi acquarelli e che mettono in scena queste figure di fantasmi, corpi di cui intravediamo forme accennate e che sono sospese, ectoplasmatiche visioni di una umanità qui perduta, oppressa, disincarnata. Le figure che la Balassanian rappresenta nelle sue opere sono indifferenziate, non individuali, irreali, irriconoscibili come vere persone. Corpi che richiamano ai temi e alla condizione femminile in Iran, paese dove la Balassianian è cresciuta e dove spiega in un saggio Donald Kuspit “la donna era definita come una serva per scopi sessuali e generalmente domestici, una sorta di non-entità dal punto di vista musulmano. Essere armena e donna significa sentirsi doppiamente indesiderabili, di second'ordine, oppressi, irreali”.
Non meno importante è infine la triste installazione The Flock del 2008 fatta con 5 teste di pecora dorate i cui occhi guardano verso il basso due monitor dove a rotazione sono proiettati video di pecore al pascolo. Metafora anche non troppo difficile da comprendere e che rimanda ancora una volta al tema dell’agnello sacrificale, della vittima necessaria all’oppressore per affermare il proprio potere nel mondo.
Il percorso espositivo si conclude con due coinvolgenti interventi site-specific – Verbum e Respiro – realizzati dalla brava giovane artista iraniana, Zoya Shokoohi nel corso di una residenza a Brescia avviata dalla Fondazione Brescia Musei come parte della mostra stessa e come ideale apertura verso le future generazioni. La Shokoohi, che vive in Italia, ha accolto il pubblico dei visitatori presentando due opere performative, una prima Verbum ispirata all’idea di “mangiare” (letteralmente) una parola .. nel testo del catalogo si evoca l’idea di “mangiare la libertà” ma la parola fatta torta (per altro gustosa) era qui scritta in persiano e l’artista presente non ha voluto svelare l’arcano. Nella sala che seguiva la Shokoohi ha invitato i partecipanti a partecipare a Respiro, un performance il cui scopo è quello di trattenere per alcuni secondi un respiro nei polmoni per poi chiuderlo in un piccolo vasetto .. da aprire un giorno lì dove “serve aria da respirare”. Due performance leggere e che hanno rasserenato gli animi e che, pur nella loro dimensione artistica ancora un po’ embrionale e in nuce, fanno auspicare che altre donne libere, in Iran e nel mondo, possano guardare al futuro con speranza ed essere un giorno finalmente libere.
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