EGON SCHIELE
Klimt Kokoschka Schiele
19/10/2001
Come la vita, anche la fase creativa di Schiele fu breve, appena 10 anni. Nato nel 1890 a Tulln sul Danubio, figlio di un funzionario statale delle Ferrovie, vive con la famiglia all’interno della stazione. Il piccolo Egon, che nel pomeriggio disegna vagoni e locomotive, non sembra proprio essere destinato alla carriera d’ingegnere. Distratto, sognatore, a scuola è bravo “solo” in calligrafia, disegno e ginnastica. Importante il legame stretto, affettuoso con la più piccola delle tre sorelle, Gertie. Sarà lei la prima modella e nei disegni degli anni ’10 si può vedere come il corpo magro, esile corrisponda alla tipologia di donna amato da Schiele. Nel 1905 la morte del padre segna la vita di Egon, il quale porterà con sé a lungo questo dolore, che influenzerà le tematiche della sua arte. Lo stesso anno sceglie di dedicarsi al disegno e alla pittura definitivamente, grazie anche ad un nuovo insegnante di disegno, che lo spingerà verso l’Accademia di Belle Arti di Vienna. A sedici anni, Schiele vive da solo a Vienna e presto incontrerà grandi difficoltà economiche. Due soli anni e, nel 1909, sarà costretto a lasciare l’Accademia a seguito di contrasti e una sua polemica con i metodi didattici. Perde anche il sostegno economico dello zio e rimane quindi solo, ma troverà sostegno nell’ambiente viennese particolarmente aperto all’arte dei giovani e soprattutto troverà l’approvazione di Klimt, da lui eletto padre spirituale. Passano due anni dal giorno in cui Schiele si presenta dal maestro con la cartellina di disegni sottobraccio; già nel 1909 Klimt lo inviterà ad esporre quattro tele di grandi dimensioni alla Kunstchau.
Nello stesso periodo comincia anche a lavorare per la Wiener Werkstätte e fonda con quindici amici, tra cui Anton Peschka, il Neukunstgruppe, di cui è eletto presidente. Nel 1911 espone alla Galerie Miethke di Vienna. “Reprimere un aritsta è un crimine; significa uccidere una vita che germoglia!” (1912), esposto alla mostra del Vittoriano, è uno dei disegni che Schiele eseguì durante la prigionia, dopo essere stato incriminato per aver corrotto una minorenne a Neulengbach, dove si era trasferito con la compagna Wally Neuzil, protagonista di molti disegni erotici. Il via vai di modelle/ragazzine (Schiele, infatti, cercava modelle sempre più giovani, magre e spudorate), infastidiva non poco la piccola comunità cittadina, costringendo l’artista in galera per tre settimane. Il processo non lo riconobbe colpevole e gli furono risparmiati i lavori forzati, ma non l’accusa di aver reso accessibile materiale pornografico a bambini. A scopo dimostrativo, uno dei suoi disegni fu bruciato in pubblico. Una vicenda che finì per mettere Schiele ancora più in vista e che contribuì ad alimentare la sua leggenda. Egli ormai poteva gareggiare con il “grande apostolo” Klimt, il mito dei giovani artisti viennesi,maestro ammirato e imitato per tutta la vita. Espose, infatti, a Roma, a Colonia, a Monaco, a Bruxelles e a Parigi. Nel 1915 sposa Edith Harms una borghese colta ed austera, il suo stile raggiunge la piena maturità artistica, con i colori che dettano ritmi più pacati alle composizioni e un’acuta indagine psicologica non più deformante dei personaggi ritratti. Qualcosa è cambiato in Schiele, la prigione del proprio io sembra essersi aperta, la ricerca disperata di un’identità sembra essersi attenuata. Di lì a poco, tuttavia, il destino troncherà improvvisamente tutto questo.
Gioventù bruciata: un film di Nicholas Ray del 1955. Protagonista,James Dean: un mito per generazioni di giovani. Un fantasioso parallelismo con Egon Schiele, anch’egli un mito, per arte e vicende biografiche. “Io, eterno bambino”, (come ha scritto), affascinante, ribelle e bohemien, gioventù bruciata e consumata nei suoi autoritratti, il corpo offerto nella nudità esistenziale allo scavo materico. Il vuoto dello spazio bianco che lo comprime, contorto dalle forze pulsionali, che si nascondono dietro la maschera della persona e delle buone regole di stare in società. Inconsapevolmente gli stessi smascheramenti che il dr. Freud attuò sulla borghesia di Vienna.
Schiele, come Kokoschka, affondando il coltello nella carne in cerca di verità, a costo di mostrare le nude lacerazioni, disturbanti, lontane dalle forme sinuose e raffinate dell’Art Nouveau. Quegli ambigui presagi di morte che si accompagnavano alla bellezza e alla femminilità trasognata klimtiana, si trasformano ora in un grido doloroso, lo stesso di Munch.
La morte non si nasconde nelle opere schieliane: diviene l’ombra dell’artista, che sussurra qualcosa al suo orecchio, in “Colui che vede se stesso” (“L’uomo e la morte”) del 1911. E’ il tragico grembo della madre, nero, che imprigiona la vita del figlio, che non vedrà mai la luce (“La madre morta”, 1910). E alla fine esce allo scoperto nel 1918, anno in cui si spengono il maestro Klimt, la moglie Edith Schiele che aspettava un figlio, e tre giorni dopo, anche lui contagiato dalla febbre spagnola. Di una famiglia mai esistita ci rimane solo l’ultimo grande dipinto di Schiele, scuro e opprimente, su cui grava un futuro senza luce (“La Famiglia”, 1918).
Ma il 1918 è anche l’anno della definitiva consacrazione di Schiele, quando finalmente espone alla mostra della Secessione.
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