Galleria Nazionale delle Marche

Galleria Nazionale Marche
 

13/10/2001

Il palazzo Ducale di Urbino ospita oggi la Galleria Nazionale delle Marche, una tra le maggiori collezioni d’arte italiane. All’interno delle sue sale sono esposte opere di Raffaello, Tiziano, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Andrea del Verrocchio, Giusto di Gand, oltre a dipinti di artisti minori, ceramiche delle più note manifatture marchigiane e arazzi fiamminghi su disegno di Raffaello. Il Palazzo conserva ancora soffitti affrescati, stemmi dorati, porte sulle cui cornici è spesso leggibile la sigla "FE DUX" e camini quasi in tutte le stanze. Tra le opere più importanti della raccolta spiccano il "Ritratto di gentildonna", detta “la Muta”, di Raffaello, una delle massime espressioni della ritrattistica del maestro urbinate, e la deliziosa predella (la cui tavola purtroppo è andata persa) con il “Miracolo dell’ostia” di Paolo Uccello, in cui suggestive scene di interni ed esterni danno modo all’autore di sperimentare le regole di una corretta costruzione prospettica. Ma i veri capolavori della collezione urbinate sono due opere di Piero della Francesca: “La flagellazione” e la “Madonna di Senigallia” oltre naturalmente alla “La Città ideale”, negli anni attribuito da qualcuno a Piero, da altri a Francesco di Giorgio o al suo entourage, da altri ancora a Luciano Laurana. Ne “La flagellazione”, Piero della Francesca rappresenta una scena divisa in due parti: sulla destra un episodio del tempo di Piero, sulla sinistra, prospetticamente allontanato in secondo piano, l’episodio evangelico della flagellazione di Cristo, inserito in un’architettura rinascimentale di grande raffinatezza e dettaglio fin nel disegno dei fregi a basso rilievo, dei capitelli, delle volute e del cassettonato della copertura. Come in tutte le opere di Piero la luce è quella zenitale di mezzodì, i movimenti dei personaggi sono come bloccati, l’atteggiamento è solenne non c’è dinamismo nelle azioni. Anche la struttura bipartita da un elemento verticale, in questo caso la colonna centrale, è una formula compositiva molto cara al maestro. L’interpretazione storica dell’episodio sulla destra è ancora oggi molto controversa: per anni si è pensato rappresentasse la mandata a morte di Oddantonio da Montefeltro (fratellastro di Federico assassinato in una congiura nel 1444) da parte di due consiglieri nell’atto del tradimento. Certo è che l’autore ha voluto dare molto risalto alla scena in primissimo piano i cui personaggi sono i veri protagonisti del dipinto. L’ipotesi più verosimile collega l’intera scena ai drammatici avvenimenti che colpirono la cristianità in quegli anni: nell’episodio della flagellazione è descritta la travagliata condizione della chiesa dopo la caduta di Costantinopoli e nel gruppo di personaggi sulla destra alcuni partecipanti al concilio di Mantova del 1459, indetto per fronteggiare l’avanzata turca. La “Madonna di Senigallia”, del 1470, è una delle ultime opere di Piero, da lì in poi colpito da una malattia agli occhi che gli impedirà di dipingere negli ultimi anni di vita durante i quali si dedicherà soprattutto alla stesura del trattato "De prospectiva pingendi". Questa piccola tavola può considerarsi il punto di arrivo delle ricerche di Piero sulle possibilità espressive della luce. Qui la luce non è più diffusa nell’ambiente ma entra da una finestra: è una luce radente che mette in risalto soprattutto dopo l’intervento di restauro eseguito agli inizi degli anni ’50, i dettagli dei volti e dell’abbigliamento dei personaggi. Il restauro ha restituito l’altissima qualità del dipinto, facendoci apprezzare le trasparenze del velo della vergine, le pieghe delle vesti, i particolari dei capelli degli angeli e dei loro gioielli. Un discorso a parte merita “La Città Ideale”, il dipinto più noto della collezione, una delle opere più importanti e studiate del Rinascimento. Di autore ancora ignoto, rappresenta il preciso tentativo di esercitare lo strumento della prospettiva centrale e allo stesso tempo di figurarsi un ambiente urbano dominato da edifici costruiti alla nuova maniera. Il centro della scena è dominato dal volume cilindrico di un tempio a pianta centrale circondato da un ordine di colonne addossate al muro perimetrale, così come voleva l’Alberti (“…addossate alla muraglia…”); sullo sfondo a destra la facciata di un’altra chiesa, chiaramente a pianta longitudinale, a tre navate e tre ingressi. La pavimentazione è scandita da una griglia grigia e bianca, disegnata a rombi ed ottagoni. Gli edifici principali presentano anch’essi colonnati contro solide facciate, quelli sulla piazza hanno portici al piano terreno sempre alla maniera dell’Alberti, quelli verso il paesaggio sono via via più bassi e presentano caratteri ancora medievali. L’importanza de “La Città Ideale” è data anche dal fatto che questa tavola (insieme ad altri soli due esempi di prospettive architettoniche di città ideali, quelle di Berlino e Baltimora) rappresenta un tentativo unico nella storia dell’arte: una visione ideale di un ambiente urbano “realistico” ma allo stesso tempo un’utopia, un mondo superiore governato dai princìpi dell’Umanesimo. Ciò che non si poteva realizzare nella realtà per difficoltà economiche, tecniche o politiche, grazie alla prospettiva può essere facilmente costruito con riga e squadra sulla superficie di una tavola. L’autore sapeva benissimo che il suo disegno sarebbe rimasto comunque una visione, una città ideale senza tempo e senza spazio e quindi senza cittadini.