Il 15, il 16 e il 17 aprile nei cinema italiani
“Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie”. Parla la regista Valeria Parisi
Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie. Courtesy Nexodigital
Francesca Grego
14/04/2019
È uno dei più grandi musei del mondo, luogo di memoria e specchio del presente: nelle sue sale un numero impressionante di capolavori testimonia il passato della Spagna, ma anche le vicende di un intero continente. Tra le sue mura l’arte non ha mai avuto confini.
Il 15, il 16 e il 17 aprile il Museo del Prado sbarca al cinema nel nuovo documentario di 3D Produzioni e Nexo Digital, sostenuto da Intesa Sanpaolo con la collaborazione di Sky Arte. Oltre che della prestigiosa partnership con l’istituzione spagnola, Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie si avvale della partecipazione straordinaria del Premio Oscar Jeremy Irons, narratore di storie ed evocatore di atmosfere che porta in scena tutta la sua potente espressività.
E poi dei ricordi di Marina Saura, figlia del pittore spagnolo Antonio Saura e nipote del regista Carlos Saura, o di Laura Garcìa Lorca, presidente della Fondazione intitolata allo zio, il poeta Federico Garcìa Lorca; dei contributi di Norman Foster, al lavoro nel progetto di restauro del Salòn de Reinos, e di illustri esperti d’arte, pronti a mostrarci il patrimonio del museo da prospettive diverse, a volte sorprendenti.
Ne parliamo con Valeria Parisi, regista del film e autrice della sceneggiatura insieme a Sabina Fedeli.
“È una storia lunga sei secoli”, spiega Valeria: “Stiamo celebrando ora i 200 anni del Prado, ma le sue collezioni sono molto più antiche: nascono insieme al regno di Spagna, con il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Da allora, la passione per l’arte dei Reali ha alimentato l’immensa raccolta di dipinti che oggi ammiriamo al museo. Il film racconta le vicende di queste opere in parallelo a quelle del grande impero cattolico spagnolo. Non a caso abbiamo deciso di dare rilievo alla abdicazione di Carlo V e al suo viaggio in Estremadura con il quale abbiamo iniziato il racconto”.
Come si racconta una storia così ricca?
“Avevamo a disposizione 90 minuti. Le opere esposte sono 1700 e ce ne sono altre 7000 in collezione. In più c’era da raccontare i re e le regine, i palazzi reali… Era cruciale fare delle scelte. Abbiamo deciso di alternare due piani: da una parte c'è il racconto di Jeremy Irons, con la sua intensità, il suo sguardo, la sua voce, il suo modo empatico di comunicare. Sarebbe stato molto complicato girare questa parte dentro al Prado, un museo sempre aperto, senza giorni di chiusura. Perciò abbiamo scelto di collocare Irons in uno spazio dal forte valore simbolico: il Salòn de Reinos, che in futuro diventerà parte del museo, ma che è anche un emblema del passato della monarchia spagnola. Con le luci e le proiezioni il Salòn de Reinos diventa un luogo contemporaneo e atemporale insieme.
L’altro piano è il Prado con i suoi capolavori, da comunicare agli spettatori che vedranno il film al cinema in 50-60 paesi del mondo. Qui la scelta registica è stata quella di uscire dal museo, per trovare quanti più collegamenti possibili con la vita”.
Quale è stata la parte più difficile?
“Parlare di un’istituzione è molto più difficile che raccontare la storia di un uomo, devi metterci dentro del calore che a prima vista non c’è. Le vite di Van Gogh, di Picasso, di Gauguin o di Tintoretto sono affascinanti di per sé, è immediato trovare dei punti di interesse. Raccontare un museo invece può essere rischioso, puoi cadere nella noia, può venire il mal di schiena da museo anche a te che giri il film!
Penso che la sfida principale sia stata rendere accattivante una materia di per sé complessa da raccontare, sia perché molto vasta, sia perché i raccordi con la vita abbiamo dovuto farli noi, Sabina che ha scritto i testi e io che ho cercato le suggestioni visive. Insieme abbiamo lavorato alla struttura del documentario.
Ad esempio, iniziare con quattro minuti in cui non si vede neanche un quadro, ma si racconta la storia di Carlo V in Estremadura, può essere spaesante, ma carica di valore le opere che vedremo dopo e in qualche modo già annuncia quale direzione prenderà il documentario”.
Che cosa ti ha colpito maggiormente nei 200 anni di storia del Prado?
“L’arte come linguaggio condiviso e DNA comune dell’Europa. Credo che emerga chiaramente dalle interviste e dalla trama del documentario, che si muove tra Madrid e la Spagna, ma si sposta anche a Venezia, Napoli, Roma.
E poi mi ha affascinato notare come il corpo sia sempre stato presente nella pittura e anzi ne sia stato un fulcro fondamentale: mi piacerebbe farne il tema di un prossimo documentario. Non è un caso se abbiamo inserito nel film le evoluzioni di una ballerina di flamenco: una ballerina senza rosa in bocca, una ballerina contemporanea – Olga Pericet, di fama internazionale – che non sta lì per folklore, ma per sottolineare la presenza del corpo all’interno di un racconto che è anche pittorico. Il film si sofferma su questo aspetto in diversi momenti”.
Immagino che girare il documentario sia stato anche per voi un viaggio di scoperta… Ti sei imbattuta in storie curiose, personaggi singolari?
“Non conoscevo la pittrice fiamminga Clara Peteers, una delle poche pittrici del museo insieme all’italiana Sofonisba Anguissola. Al Prado ci sono più di 8000 opere d’arte e solo due o tre artiste: la storia dell’arte è una storia al maschile. Per far vedere che esiste, Clara Peteers infila nelle sue nature morte dei piccolissimi autoritratti. Questo mi ha fortemente colpita.
Il film è frutto di un grande lavoro di squadra, una coproduzione di Nexo Digital e 3D Produzioni, la casa di produzione in cui sono cresciuta. Ma è anche un lavoro con una notevole impronta femminile: dal soggetto di Didi Gnocchi alla mia regia e alla sceneggiatura che ho scritto con Sabina, fino al montaggio di Valentina Ghilotti e alla produzione esecutiva di Gloria Bogi. Anche Cristina Alovisetti, la nostra interlocutrice al Prado, ha dato un contributo determinante. Insieme siamo riuscite a dare un’immagine viva e non troppo istituzionale di questo museo, oltre che a scrivere una sceneggiatura che, mi piace dirlo, è un po' femminista”.
Durante le ricerche ti è capitato di fare scoperte inattese, che hanno cambiato il tuo sguardo sull’arte?
“L'arte mi appassiona tutta, ma sicuramente non ho una cultura accademica riguardo all'arte classica. Devo dire che non credevo che artisti come Rubens o El Greco potessero piacermi. Il Prado me li ha fatti scoprire.
Sono partita pensando che il Giardino delle Delizie di Bosch fosse in assoluto il mio quadro preferito al Prado. Grazie alle interviste e alle notti passate a girare il film, ho scoperto che, per esempio, mi appassionavano anche Tiziano e la pittura veneta”.
Come è stato lavorare con Jeremy Irons?
“Irons è un gran signore. Oltre che un grande artista è una persona molto umile, non ha nessuna arroganza. È uno che non sbaglia, che ha sempre il tono giusto e sa solo valorizzare le cose. Ma è anche una persona che non se la tira per nulla. Lui dice che si è divertito, che gli è piaciuto partecipare a questo progetto. Non possiamo che esserne contenti. D’altronde la sua presenza, così come quella di un interlocutore come il Prado, è stata per noi un grande stimolo: l’esperimento è riuscito perché tutti abbiamo dato il meglio”.
Leggi anche:
• Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie – La nostra recensione
• Viaggio a Madrid: il mondo di Goya nelle sale del Prado
• Storie di capolavori: dietro le quinte della collezione del Prado
• Il Museo del Prado, la Corte delle Meraviglie, compie 200 anni e sbarca al cinema
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E poi dei ricordi di Marina Saura, figlia del pittore spagnolo Antonio Saura e nipote del regista Carlos Saura, o di Laura Garcìa Lorca, presidente della Fondazione intitolata allo zio, il poeta Federico Garcìa Lorca; dei contributi di Norman Foster, al lavoro nel progetto di restauro del Salòn de Reinos, e di illustri esperti d’arte, pronti a mostrarci il patrimonio del museo da prospettive diverse, a volte sorprendenti.
Ne parliamo con Valeria Parisi, regista del film e autrice della sceneggiatura insieme a Sabina Fedeli.
“È una storia lunga sei secoli”, spiega Valeria: “Stiamo celebrando ora i 200 anni del Prado, ma le sue collezioni sono molto più antiche: nascono insieme al regno di Spagna, con il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Da allora, la passione per l’arte dei Reali ha alimentato l’immensa raccolta di dipinti che oggi ammiriamo al museo. Il film racconta le vicende di queste opere in parallelo a quelle del grande impero cattolico spagnolo. Non a caso abbiamo deciso di dare rilievo alla abdicazione di Carlo V e al suo viaggio in Estremadura con il quale abbiamo iniziato il racconto”.
Come si racconta una storia così ricca?
“Avevamo a disposizione 90 minuti. Le opere esposte sono 1700 e ce ne sono altre 7000 in collezione. In più c’era da raccontare i re e le regine, i palazzi reali… Era cruciale fare delle scelte. Abbiamo deciso di alternare due piani: da una parte c'è il racconto di Jeremy Irons, con la sua intensità, il suo sguardo, la sua voce, il suo modo empatico di comunicare. Sarebbe stato molto complicato girare questa parte dentro al Prado, un museo sempre aperto, senza giorni di chiusura. Perciò abbiamo scelto di collocare Irons in uno spazio dal forte valore simbolico: il Salòn de Reinos, che in futuro diventerà parte del museo, ma che è anche un emblema del passato della monarchia spagnola. Con le luci e le proiezioni il Salòn de Reinos diventa un luogo contemporaneo e atemporale insieme.
L’altro piano è il Prado con i suoi capolavori, da comunicare agli spettatori che vedranno il film al cinema in 50-60 paesi del mondo. Qui la scelta registica è stata quella di uscire dal museo, per trovare quanti più collegamenti possibili con la vita”.
Quale è stata la parte più difficile?
“Parlare di un’istituzione è molto più difficile che raccontare la storia di un uomo, devi metterci dentro del calore che a prima vista non c’è. Le vite di Van Gogh, di Picasso, di Gauguin o di Tintoretto sono affascinanti di per sé, è immediato trovare dei punti di interesse. Raccontare un museo invece può essere rischioso, puoi cadere nella noia, può venire il mal di schiena da museo anche a te che giri il film!
Penso che la sfida principale sia stata rendere accattivante una materia di per sé complessa da raccontare, sia perché molto vasta, sia perché i raccordi con la vita abbiamo dovuto farli noi, Sabina che ha scritto i testi e io che ho cercato le suggestioni visive. Insieme abbiamo lavorato alla struttura del documentario.
Ad esempio, iniziare con quattro minuti in cui non si vede neanche un quadro, ma si racconta la storia di Carlo V in Estremadura, può essere spaesante, ma carica di valore le opere che vedremo dopo e in qualche modo già annuncia quale direzione prenderà il documentario”.
Che cosa ti ha colpito maggiormente nei 200 anni di storia del Prado?
“L’arte come linguaggio condiviso e DNA comune dell’Europa. Credo che emerga chiaramente dalle interviste e dalla trama del documentario, che si muove tra Madrid e la Spagna, ma si sposta anche a Venezia, Napoli, Roma.
E poi mi ha affascinato notare come il corpo sia sempre stato presente nella pittura e anzi ne sia stato un fulcro fondamentale: mi piacerebbe farne il tema di un prossimo documentario. Non è un caso se abbiamo inserito nel film le evoluzioni di una ballerina di flamenco: una ballerina senza rosa in bocca, una ballerina contemporanea – Olga Pericet, di fama internazionale – che non sta lì per folklore, ma per sottolineare la presenza del corpo all’interno di un racconto che è anche pittorico. Il film si sofferma su questo aspetto in diversi momenti”.
Immagino che girare il documentario sia stato anche per voi un viaggio di scoperta… Ti sei imbattuta in storie curiose, personaggi singolari?
“Non conoscevo la pittrice fiamminga Clara Peteers, una delle poche pittrici del museo insieme all’italiana Sofonisba Anguissola. Al Prado ci sono più di 8000 opere d’arte e solo due o tre artiste: la storia dell’arte è una storia al maschile. Per far vedere che esiste, Clara Peteers infila nelle sue nature morte dei piccolissimi autoritratti. Questo mi ha fortemente colpita.
Il film è frutto di un grande lavoro di squadra, una coproduzione di Nexo Digital e 3D Produzioni, la casa di produzione in cui sono cresciuta. Ma è anche un lavoro con una notevole impronta femminile: dal soggetto di Didi Gnocchi alla mia regia e alla sceneggiatura che ho scritto con Sabina, fino al montaggio di Valentina Ghilotti e alla produzione esecutiva di Gloria Bogi. Anche Cristina Alovisetti, la nostra interlocutrice al Prado, ha dato un contributo determinante. Insieme siamo riuscite a dare un’immagine viva e non troppo istituzionale di questo museo, oltre che a scrivere una sceneggiatura che, mi piace dirlo, è un po' femminista”.
Durante le ricerche ti è capitato di fare scoperte inattese, che hanno cambiato il tuo sguardo sull’arte?
“L'arte mi appassiona tutta, ma sicuramente non ho una cultura accademica riguardo all'arte classica. Devo dire che non credevo che artisti come Rubens o El Greco potessero piacermi. Il Prado me li ha fatti scoprire.
Sono partita pensando che il Giardino delle Delizie di Bosch fosse in assoluto il mio quadro preferito al Prado. Grazie alle interviste e alle notti passate a girare il film, ho scoperto che, per esempio, mi appassionavano anche Tiziano e la pittura veneta”.
Come è stato lavorare con Jeremy Irons?
“Irons è un gran signore. Oltre che un grande artista è una persona molto umile, non ha nessuna arroganza. È uno che non sbaglia, che ha sempre il tono giusto e sa solo valorizzare le cose. Ma è anche una persona che non se la tira per nulla. Lui dice che si è divertito, che gli è piaciuto partecipare a questo progetto. Non possiamo che esserne contenti. D’altronde la sua presenza, così come quella di un interlocutore come il Prado, è stata per noi un grande stimolo: l’esperimento è riuscito perché tutti abbiamo dato il meglio”.
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