LA PRIMAVERA DI BOTTICELLI

Pallade doma il Centauro di Sandro Botticelli
 

17/01/2002

Sul finire degli anni Settanta del XV secolo (1477-78) il giovane Lorenzo di Pierfrancesco Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico, commissiona, per la sua villa di Castello, un dipinto a Sandro Filipepi, meglio noto come Botticelli.. Oggi quel quadro, una tavola di più di due metri d’altezza per tre di larghezza, è conservato agli Uffizi nella grande sala che prende il nome proprio dal pittore toscano. L’opera mostra nove figure inserite in un classico giardino all’italiana, caratterizzato da un agrumeto e dalle più svariate specie di fiori (80 riconosciute). Particolare non ininfluente sapere che il giardino di villa di Castello aveva le stesse caratteristiche presenti nel dipinto. Parte del grande fascino che il quadro ha da sempre esercitato in chi lo osserva è, come capita spesso, la difficile interpretazione del significato ad esso connesso. Il titolo di “Allegoria della Primavera” segue l’interpretazione di Giorgio Vasari, ma sul significato allegorico, intessuto di riferimenti alla cultura neoplatonica dominante nella Firenze dell’epoca, si discute ancora. Il senso di lettura sembra andare da destra a sinistra, particolare confermato dall’orientamento delle figure. Così facendo si comincia la rassegna con due personaggi di dubbia identificazione: probabilmente Zefiro (un vento) che cinge con le braccia una fanciulla (la ninfa Flora?), dalla cui bocca esce un ramoscello, segno della fioritura, che trova la sua massima floridezza nella protagonista dell’intera composizione, subito successiva, la Primavera, che con la veste crea una sorta di cornucopia floreale. Al centro del dipinto, ma un po’ arretrata, è Venere, dea dell’amore, al di sopra della quale, ad ali spiegate, volteggia Eros, bendato come l’iconografia prevede, e pronto a scoccare il dardo, suo attributo precipuo. La freccia d’amore è puntata verso le Tre Grazie presentate seguendo l’inconfondibile motivo classico del girotondo. A chiudere la schiera di personaggi è il dio Mercurio, con tanto di calzari alati e di caduceo nella mano destra con cui sembra diradare delle nubi. Il primo significato cui allude la descrizione appena fatta rimanda all’arrivo della stagione primaverile, quella della rinascita floreale (generata dal connubio Zefiro-Flora), quella degli amori (Venere, Amore e le Grazie rappresenterebbero in questo caso una sorta di numi tutelari), dell’allontanamento delle nuvole (letteralmente spostate da Mercurio). La stessa descrizione è perfetta anche per un’interpretazione che tenti di andare oltre questa che potremmo definire di “primo livello”. Il quadro rappresenterebbe anche i due tipi d’amore della cultura neoplatonica: l’amore “volgare” (rappresentato dall’amore carnale di Zefiro-Flora e dalla figura della Primavera, in questo caso Venere Vulgaris) e l’amore divino (rappresentato dalla Venere Coelestis in secondo piano). Stando a questo “secondo livello” il quadro si presenterebbe come una sorta di opera didattico-morale, il cui fruitore sarebbe Lorenzo di Pierfrancesco, committente dell’opera. Questa seconda interpretazione, con varie modifiche a seconda degli studiosi che se ne sono occupati, ha portato all’accostamento del quadro con un testo preciso cui Botticelli si sarebbe ispirato. Tale indagine, tra le più pretenziose dell’intera storia dell’arte del XX secolo, ha praticamente setacciato gran parte della produzione letteraria di quegli anni, data la simile matrice ideologica comune a molti scritti fiorentini tardo-quattrocenteschi. Sta di fatto che qualunque sia il referente botticelliano, le “Stanze” di Poliziano per la Giostra di Giuliano de’ Medici (secondo Aby Warburg), la “Fabula” di Marziano Cappella (secondo la recente ipotesi di Claudia Villa), qualunque altro testo citato a riguardo, oppure un programma stilato a bella posta da Marsilio Ficino per Lorenzo di Pierfrancesco (secondo Gombrich), il quadro non perderà la sua portata culturale ed il suo ruolo di punto di riferimento di tutta la pittura italiana del Quattrocento.