Dal 22 al 24 gennaio in mostra presso lo Spazio M.A.C.

Seven Sisters: il ritorno di Tarik Berber

Tarik Berber nello studio | Foto: © Claudia agati
 

Francesca Grego

20/01/2020

Milano - Il giovane Marcel Proust osserva un quadro di Giovanni Bellini, Iggy Pop è ritratto come il Cristo di Cimabue, Robert Rauschenberg incontra Albrecht Dürer ma anche i maestri del Rinascimento fiorentini, i colori di Pompei, le influenze della Secessione viennese e le icone della Giamaica rastafariana, mentre la Madonna si spoglia e il suo busto statuario e sensuale appare come una visione in mezzo al krš, la macchia mediterranea che cresce tra le pietre arse della Dalmazia. È solo un assaggio di Seven Sisters, la mostra che segna il ritorno in Italia del pittore bosniaco Tarik Berber dopo sette anni trascorsi a Londra. Dal 22 al 24 gennaio lo Spazio M.A.C. di Milano, grazie a Fondazione Maimeri e ARTE.it, sarà il teatro di un viaggio contemporaneo attraverso il tempo e lo spazio, seguendo il filo di una ricerca sensibile e originale. Passione, maestria tecnica e una fervida immaginazione si fondono in un crogiolo di spunti ed esperienze che il pubblico italiano ha imparato a conoscere nell’estate 2017 con la mostra Toxic Cadmium, all’Aria Art Gallery di Firenze.

 FOTO – Seven Sisters

Londra, Firenze, Zara e Berlino sono le tappe dell’avventura di Tarik, nato nel 1980 a Banja Luka, in Bosnia Herzegovina, cresciuto a Bolzano dopo l’esplosione del conflitto nella ex Iugoslavia e forte di una solida formazione all’Accademia di Firenze sotto la guida di Adriano Bimbi.
“Milano è il mio quinto esodo”, racconta l’artista, “Con un furgone ho portato qui 100 quadri da quattro diverse città dell’Europa: il meglio di sette anni di lavoro, opere sceltissime per una mostra di alto livello che però è una produzione orgogliosamente indie, tirata su grazie ad un dialogo di un anno con Gianni Maimeri, il curatore Andrea Dusio e ARTE.it. Una cosa che capita spesso nel cinema e nella musica, ma che nel mondo dell’arte rappresenta un esperimento insolito e coraggioso”.
“Una mostra che - spiega Dusio - parte dal Rinascimento per arrivare al Goth, espresso nella dominante rossa che attraversa Seven Sisters. Quasi un sogno di Dürer, un percorso in cui sono le tecniche più sperimentali ad attrarlo, ma che nel contempo è un sogno fatto con i colori di Rothko, o dei Prints di Jaspers Johns”.

Seven Sisters è il quartiere di Londra dove ho vissuto e lavorato per sette anni”, prosegue Berber. “Un luogo che mi ha dato tanto, nella città che oggi è in Europa è il principale punto di riferimento per chi voglia fare arte e in particolare pittura. Una metropoli ultramoderna e carica di vibrazioni, dove la mia ricerca ha avuto modo di evolversi verso una nuova maturità. Così, alla soglia dei 40 anni, nasce la mia prima mostra antologica fatta di opere varie per tecnica, atmosfere e ispirazione. In ognuna di queste serie c’è qualcosa delle precedenti, che sia un colore o il tratteggio. A volte non ricordi nemmeno perché hai scelto un tema, ma poi te lo porti dietro per anni. Lo vedi trasformarsi in qualcosa di diverso e tuttavia segnato dallo stesso DNA”.

Sei un pittore nell’anima, ma la novità delle tue ultime opere è l’ibridazione tra grafica e pittura. Come mai?
“L’intuizione è arrivata qualche anno fa guardando un documentario su Rauschenberg. Ho potuto osservare come trasportava le sue foto sugli screen per la serigrafia in vista della partecipazione alla Biennale di Venezia. Sono sempre stato un patito del disegno e dell’incisione. Così ho pensato alla possibilità di fondere due aspetti fondamentali della mia creatività. Mi sono fatto aiutare da un’amica che lavorava nelle stamperie londinesi ed è nata Pop is not dead: un esperimento che mette insieme grafica e pittura in soggetti che spaziano da Jack Nicholson e Iggy Pop ai miti di Enea e Anchise, fino a Taras, il leggendario fondatore di Taranto, o a Mi’mar Koca Sinan, l’architetto cinquecentesco di Solimano il Magnifico che ha disseminato di moschee, ponti e palazzi i territori dell’Impero Ottomano da Istanbul alla Bosnia. Se la frase “Punk is not dead” ha segnato di fatto la morte del punk, Pop is not dead è una specie di formula magica con cui ho provato provocatoriamente a uccidere la Pop Art, che notoriamente non amo. Ma è anche un modo per mostrare come il Pop non sia fatto solo di Andy Warhol e zuppe Campbell: ci sono state anche esperienze di altro spessore, da Rauschenberg a Mario Schifano”.

Quale è il valore aggiunto di queste nuove esperienze?
Inizialmente pensavo che il nuovo metodo avrebbe reso tutto più veloce. In realtà si è verificato il contrario. È molto meno immediato che mettersi a dipingere sulla tela e il processo è decisamente più lungo: devi padroneggiare entrambe le tecniche e i tanti passaggi previsti, per esempio conoscere esattamente i tempi e la forza della luce quando maneggi il liquido fotosensibile. L’aspetto manuale e artigianale che già amavo nella pittura qui assume un’importanza ancora maggiore. Un anno dopo Pop is not dead mi sono sentito completamente autonomo. L’ultima serie, Seven Sisters, è il cuore della mostra milanese e il frutto più maturo di questo processo: un misto di grafica e pittura che vive di ritratti di persone che ho incontrato, miti e citazioni che hanno colpito la mia fantasia. L’impatto visivo e cromatico è molto forte. Da un lato c’è una pittura potente, dall’altro un’incisione delicata come un ricamo, che scende nei dettagli di ogni linea, foglia o radice. Nella stampa le due dimensioni si fondono in una bellezza nuova. È una strada che finora hanno battuto in pochi”.

In passato i tuoi dipinti ruotavano attorno alla figura umana. Oggi la natura assume un ruolo da co-protagonista...
È vero, fino a qualche anno fa nei miei quadri c’erano solo volti e corpi di uomini e di donne immersi in quel tempo-non-tempo che è il tempo pittorico. Ora è venuta fuori la natura, una sorta di ritorno al paesaggio. Non è il paesaggio rinascimentale o romantico, anche se nello spazio del quadro occupa la stessa posizione. È il paesaggio della Dalmazia, la macchia mediterranea che cresce sulla terra arsa, ma è così forte da spaccare la roccia. In croato si chiama krš. La Madonna del Krš, per esempio, è sospesa tra arbusti bruciati dal sole e dal vento di bora. È un’immagine di speranza: le cose che nascono in ambienti aridi e inospitali nascondono grande potenza e vitalità. Lo trovo affascinante”.

Windsor Beauty invece si presenta già nel titolo come un’eredità del tuo soggiorno in UK...
È la mia penultima serie, un esperimento nato intorno ai ritratti che nel XVII secolo il pittore olandese Peter Lely realizzò per la duchessa di Windsor e per le sue amiche. Un sogno che prende le mosse da suggestioni classiche, dove immagino che le dame si vestano una da Venere, un’altra da Nike, la Vittoria… Ispirazioni antiche nel senso positivo del termine, che ho portato in mostra a Istanbul un anno e mezzo fa”.

Dove nasce il tuo legame con Albrecht Dürer?
Dürer è la cura della linea. Nel disegno e nell’incisione la linea è l’unico mezzo per descrivere il volume, la luce, lo spazio. Il disegno è la base di tutto, ti permette di capire i rapporti, la matematica, la logica di una composizione. Io vivo con la matita in mano, senza mai fermarmi. Così ho illustrato fiabe, creato animazioni, fino al disegno pittorico che per me è il più affascinante. Modigliani per esempio ha prodotto per i suoi nudi degli studi che hanno un’anima. Il segno dell’incisione poi è un segno caldo, da manovale. È sempre sincero perché non sa mentire: una linea la sai fare oppure no. Dürer nasce come incisore, diventa pittore quando durante un soggiorno a Venezia scopre l’arte di Giorgione e degli altri Maestri veneti. Tornato a Norimberga, inizia a dipingere con lo sfumato, naturalmente tenendo separate le sfere della pittura e della grafica. Unire la magia della linea e quella del pennello è stata per me una grande sfida”.

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