Aspettando "Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie", al cinema dal 15 al 17 aprile
Storie di capolavori: dietro le quinte della collezione del Prado
Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, semplicemente noto come Diego Velázquez, (Siviglia, 1599 - Madrid, 1660), Las meninas, 1656, Olio su tela, 256 x 318 cm, Museo del Prado, Madrid | Courtesy of Nexo Digital
Francesca Grego
09/04/2019
Mondo - Mille storie si incontrano nelle sale del Museo del Prado di Madrid, scrigno d'arte tra i più preziosi al mondo e documento vivo di vicende antiche e moderne, di popoli, sovrani, artisti e gente comune; di conquiste e di alleanze, ma anche di mode, curiosità e fenomeni sociali, di paure individuali e irresistibili attrazioni, di imperi grandi come continenti e di lotte per la libertà, in cui l'ascesa della Spagna come stato nazionale e potenza mondiale incrocia i destini e la cultura dell'Europa intera. E naturalmente le avventure di giganti dell'arte come Tiziano, Rubens e Diego Velàsquez, le allucinazioni venute dal Nord di Hieronymus Bosch, le intuizioni profetiche di Francisco Goya, la modernità di Pablo Picasso e Salvador Dalì, fino all'immaginario e ai sentimenti di grandi scrittori spagnoli come Pedro Calderòn de la Barca e Federico Garcìa Lorca.
A narrare tutto questo sul grande schermo dal 15 al 17 aprile sarà il docu-film Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie, scritto da Sabina Fedeli e diretto da Valeria Parisi per 3D Produzioni e Nexo Digital, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e la partecipazione di Sky Arte, in occasione dei 200 anni dalla nascita del museo iberico.
In attesa che il Premio Oscar Jeremy Irons ci faccia da guida in un'intricata trama di opere, architetture e interessanti retroscena, proviamo a districarci nel labirinto prendendo come riferimento alcuni dei numerosi capolavori oggi esposti al Prado.
Se il Museo Real de Pinturas di Madrid ha aperto i battenti solo nel 1819, le sue collezioni hanno origine diversi secoli prima e precisamente nel 1469, quando il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona sancisce la nascita dello Stato spagnolo. Tesori dell'arte di tutta Europa si accumulano velocemente nei palazzi dei sovrani, dai Trastamara agli Asburgo e ai Borbone, dando vita a una raccolta che, creata nel segno della passione per la bellezza, oggi svela il gusto, le idiosincrasie, le ambizioni di re e regine in parallelo alle trasformazioni della società.
Se a mettere insieme i gioielli del Prado furono collezionisti d'eccezione come Carlo V, Filippo II e Filippo IV, questi divennero simboli della Spagna del popolo quando, nel 1931, il governo repubblicano appena costituito li fece viaggiare in numerose copie fin nei più remoti villaggi del paese, in mostre itineranti che eprimevano un nuovo ideale di condivisione della cultura. Ma ad attenderli c'era un destino incerto: a partire dal 1936 la Guerra Civile costrinse i capolavori del Prado all'esilio, prima a Valencia, poi a Ginevra: avrebbero fatto ritorno a Madrid solo alla vigilia del secondo conflitto mondiale.
Negli anni bui del regime franchista il museo rappresenterà un faro per gli esuli e dei dissidenti, che in un patrimonio di bellezza cresciuto senza frontiere di sorta riconosceranno i germi di una cultura di pace universale.
Molti considerano Tiziano il “padre” del Prado: a partire da Carlo V, i sovrani spagnoli sono pronti a fare follie per le sue opere e per quelle di altri illustri veneziani come Tintoretto e Paolo Veronese. È la Gloria del Vecellio, vero viatico per l'eternità progettato dall'imperatore con un gruppo di teologi, a raccogliere l'ultimo sguardo di Carlo V nel Monastero di San Jeronimo di Yuste. Ed è sempre Tiziano a elaborare un prestigioso modello di ritratto di stato, con le figure snellite e la mandibola sporgente degli Asburgo che lascia il posto a lineamenti più gentili. È ancora lui a stregare il cattolicissimo Filippo II con nudi sensuali come quello di Danae, che il re contempla in una stanza privata e fa coprire con un lenzuolo al passaggio della regina. Stessa sorte subiranno le Tre Grazie di Rubens, omaggio alla potenza della vita che segna la transizione dal Rinascimento al Barocco, dal senso del peccato della Controriforma a un nuovo gusto per le gioie terrene.
Ma il Prado non sarebbe stato lo stesso senza Diego Velàsquez, pittore ufficiale della corte di Filippo IV ed emissario del sovrano in Italia, dove è incaricato di acquistare nuovi tesori per le collezioni reali.
“Il pittore dei pittori” lo definì il collega impressionista Edouard Manet in visita a Madrid due secoli dopo, e nel Novecento Dalì affermerà che se il Prado fosse andato in fiamme avrebbe salvato per prima “l'aria di Las Meninas, la migliore che esista”. Tra le maggiori attrattive del museo, il quadro di Velàsquez è una modernissima “macchina della rappresentazione”, come la definì Michel Foucault: per la prima volta nella storia dell'arte, mostra il backstage del ritratto dei sovrani, con il pittore al lavoro davanti al cavalletto e, in primo piano, l'infanta, i paggi e le damigelle intente a giocare. Solo nello specchio in fondo scorgiamo il riflesso della coppia reale. Per sottolineare il ribaltamento del punto di vista, ai primi del Novecento il quadro fu esposto al Prado di fronte a uno specchio in una sala dedicata.
Nel dipinto Le Filatrici, invece, Velàsquez condensa un significativo brano di storia del museo: oltre quella che per molto tempo è stata considerata una semplice scena di genere, riconosciamo un arazzo tratto dal Ratto di Europa di Tiziano, che Rubens riprodusse durante il suo soggiorno spagnolo. La stessa manifattura dell'arazzo è testimone di un importante passaggio storico: la perdita dei Paesi Bassi, importantissimo centro di lavorazione delle raffinate opere su tessuto, durante il regno di Filippo II e la creazione di nuovi laboratori in Spagna.
Se Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, porta dall'Italia la bizzarria della Donna Barbuta (una donna affetta da grave irsutismo dipinta in Abruzzo mentre allatta un neonato), dalle Fiandre arriva la fantasia visionaria di Bosch con il Giardino delle Delizie: un trittico inusuale che attrae l'attenzione di visitatori di ogni provenienza e da secoli mette alla prova gli studiosi con le sue scene grottesche ed enigmatiche. Pare che il re Filippo II nutrisse una grande passione per l'opera e per la pittura fiamminga fatta di colori brillanti e dettagli curiosi.
El Greco, il veneziano venuto da Creta, introduce in Spagna un'arte quasi espressionistica, sganciata dalle convenzioni del naturalismo: le sue figure contorte e deformate restano incomprensibili fino al XX secolo e per spiegarle si parla di volta in volta di un artista folle, con gravi difetti di vista o sotto l'effetto di oppiacei. Ma El Greco dà visibilità a una parte silenziosa, fino ad allora trascurata della società spagnola: quella degli Hidalgos (letteralmente “figli d'altri”), una nobiltà minore, benestante o impoverita, capace di guardare la morte negli occhi per meglio apprezzare la vita come nell'epopea di Don Chisciotte. Non conosciamo l'identità del suo austero Cavaliere con la mano sul petto, abbigliato di tutto punto alla moda del Seicento, ma sappiamo che è riuscito a influenzare Modigliani, Picasso e perfino Pollock.
Il Prado brulica di bellezze femminili - dee, majas e regine - ma sono davvero poche le donne artiste: tra loro spiccano la fiamminga Clara Peters, che nasconde autoritratti in miniatura nelle superfici specchianti delle sue nature morte, e la cremonese Sofonisba Anguissola, quasi una leggenda nella Spagna del Cinque-Seicento: Michelangelo la considera un talento, Antoon Van Dyck parla di miracolo, lei arriva alla corte di Filippo II come dama della regina e dipinge memorabili ritratti, tra cui quello, famosissimo, di Elisabetta di Valois.
Le tavole di Sandro Botticelli ispirate al Decamerone, l'Annunciazione del Beato Angelico che affascinò Dalì e Garcìa Lorca, le dolci madonne di Bartolomé Esteban Murillo, il Cristo in Pietà di Antonello da Messina, la conturbante Giuditta di Rembrandt, il Ritratto di cardinale di Raffaello, il Trionfo della Morte di Bruegel il Vecchio, il precoce, smagliante paesaggio del Passaggio agli Inferi del fiammingo Johachim Patinir, il celeberrimo Autoritratto con guanti di Albrecht Dürer, l'intensa tela di Davide e Golia dipinta da Caravaggio, la scultorea Deposizione di Rogier Van der Weyden e le brillanti nature morte di Juan Sanchez Cotàn sono solo alcuni dei capolavori senza tempo che rapiscono gli occhi nelle sale del museo madrileno.
Ma è impossibile tacere delle oltre 900 opere di Francisco Goya y Lucientes, la più grande collezione al mondo dedicata all'eccentrico pittore aragonese: dai temi bucolici degli esordi, quando l'artista era soltanto un disegnatore di arazzi, ai dissacranti Capricci e agli incubi delle Pitture nere, incredibilmente in anticipo sui tempi. Fino ai dipinti del 2 e 3 maggio 1808, drammatiche testimonianze delle rivolte contro l'occupazione napoleonica e in seguito simboli dell'atrocità di ogni guerra.
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A narrare tutto questo sul grande schermo dal 15 al 17 aprile sarà il docu-film Il Museo del Prado. La Corte delle Meraviglie, scritto da Sabina Fedeli e diretto da Valeria Parisi per 3D Produzioni e Nexo Digital, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e la partecipazione di Sky Arte, in occasione dei 200 anni dalla nascita del museo iberico.
In attesa che il Premio Oscar Jeremy Irons ci faccia da guida in un'intricata trama di opere, architetture e interessanti retroscena, proviamo a districarci nel labirinto prendendo come riferimento alcuni dei numerosi capolavori oggi esposti al Prado.
Se il Museo Real de Pinturas di Madrid ha aperto i battenti solo nel 1819, le sue collezioni hanno origine diversi secoli prima e precisamente nel 1469, quando il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona sancisce la nascita dello Stato spagnolo. Tesori dell'arte di tutta Europa si accumulano velocemente nei palazzi dei sovrani, dai Trastamara agli Asburgo e ai Borbone, dando vita a una raccolta che, creata nel segno della passione per la bellezza, oggi svela il gusto, le idiosincrasie, le ambizioni di re e regine in parallelo alle trasformazioni della società.
Se a mettere insieme i gioielli del Prado furono collezionisti d'eccezione come Carlo V, Filippo II e Filippo IV, questi divennero simboli della Spagna del popolo quando, nel 1931, il governo repubblicano appena costituito li fece viaggiare in numerose copie fin nei più remoti villaggi del paese, in mostre itineranti che eprimevano un nuovo ideale di condivisione della cultura. Ma ad attenderli c'era un destino incerto: a partire dal 1936 la Guerra Civile costrinse i capolavori del Prado all'esilio, prima a Valencia, poi a Ginevra: avrebbero fatto ritorno a Madrid solo alla vigilia del secondo conflitto mondiale.
Negli anni bui del regime franchista il museo rappresenterà un faro per gli esuli e dei dissidenti, che in un patrimonio di bellezza cresciuto senza frontiere di sorta riconosceranno i germi di una cultura di pace universale.
Molti considerano Tiziano il “padre” del Prado: a partire da Carlo V, i sovrani spagnoli sono pronti a fare follie per le sue opere e per quelle di altri illustri veneziani come Tintoretto e Paolo Veronese. È la Gloria del Vecellio, vero viatico per l'eternità progettato dall'imperatore con un gruppo di teologi, a raccogliere l'ultimo sguardo di Carlo V nel Monastero di San Jeronimo di Yuste. Ed è sempre Tiziano a elaborare un prestigioso modello di ritratto di stato, con le figure snellite e la mandibola sporgente degli Asburgo che lascia il posto a lineamenti più gentili. È ancora lui a stregare il cattolicissimo Filippo II con nudi sensuali come quello di Danae, che il re contempla in una stanza privata e fa coprire con un lenzuolo al passaggio della regina. Stessa sorte subiranno le Tre Grazie di Rubens, omaggio alla potenza della vita che segna la transizione dal Rinascimento al Barocco, dal senso del peccato della Controriforma a un nuovo gusto per le gioie terrene.
Ma il Prado non sarebbe stato lo stesso senza Diego Velàsquez, pittore ufficiale della corte di Filippo IV ed emissario del sovrano in Italia, dove è incaricato di acquistare nuovi tesori per le collezioni reali.
“Il pittore dei pittori” lo definì il collega impressionista Edouard Manet in visita a Madrid due secoli dopo, e nel Novecento Dalì affermerà che se il Prado fosse andato in fiamme avrebbe salvato per prima “l'aria di Las Meninas, la migliore che esista”. Tra le maggiori attrattive del museo, il quadro di Velàsquez è una modernissima “macchina della rappresentazione”, come la definì Michel Foucault: per la prima volta nella storia dell'arte, mostra il backstage del ritratto dei sovrani, con il pittore al lavoro davanti al cavalletto e, in primo piano, l'infanta, i paggi e le damigelle intente a giocare. Solo nello specchio in fondo scorgiamo il riflesso della coppia reale. Per sottolineare il ribaltamento del punto di vista, ai primi del Novecento il quadro fu esposto al Prado di fronte a uno specchio in una sala dedicata.
Nel dipinto Le Filatrici, invece, Velàsquez condensa un significativo brano di storia del museo: oltre quella che per molto tempo è stata considerata una semplice scena di genere, riconosciamo un arazzo tratto dal Ratto di Europa di Tiziano, che Rubens riprodusse durante il suo soggiorno spagnolo. La stessa manifattura dell'arazzo è testimone di un importante passaggio storico: la perdita dei Paesi Bassi, importantissimo centro di lavorazione delle raffinate opere su tessuto, durante il regno di Filippo II e la creazione di nuovi laboratori in Spagna.
Se Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, porta dall'Italia la bizzarria della Donna Barbuta (una donna affetta da grave irsutismo dipinta in Abruzzo mentre allatta un neonato), dalle Fiandre arriva la fantasia visionaria di Bosch con il Giardino delle Delizie: un trittico inusuale che attrae l'attenzione di visitatori di ogni provenienza e da secoli mette alla prova gli studiosi con le sue scene grottesche ed enigmatiche. Pare che il re Filippo II nutrisse una grande passione per l'opera e per la pittura fiamminga fatta di colori brillanti e dettagli curiosi.
El Greco, il veneziano venuto da Creta, introduce in Spagna un'arte quasi espressionistica, sganciata dalle convenzioni del naturalismo: le sue figure contorte e deformate restano incomprensibili fino al XX secolo e per spiegarle si parla di volta in volta di un artista folle, con gravi difetti di vista o sotto l'effetto di oppiacei. Ma El Greco dà visibilità a una parte silenziosa, fino ad allora trascurata della società spagnola: quella degli Hidalgos (letteralmente “figli d'altri”), una nobiltà minore, benestante o impoverita, capace di guardare la morte negli occhi per meglio apprezzare la vita come nell'epopea di Don Chisciotte. Non conosciamo l'identità del suo austero Cavaliere con la mano sul petto, abbigliato di tutto punto alla moda del Seicento, ma sappiamo che è riuscito a influenzare Modigliani, Picasso e perfino Pollock.
Il Prado brulica di bellezze femminili - dee, majas e regine - ma sono davvero poche le donne artiste: tra loro spiccano la fiamminga Clara Peters, che nasconde autoritratti in miniatura nelle superfici specchianti delle sue nature morte, e la cremonese Sofonisba Anguissola, quasi una leggenda nella Spagna del Cinque-Seicento: Michelangelo la considera un talento, Antoon Van Dyck parla di miracolo, lei arriva alla corte di Filippo II come dama della regina e dipinge memorabili ritratti, tra cui quello, famosissimo, di Elisabetta di Valois.
Le tavole di Sandro Botticelli ispirate al Decamerone, l'Annunciazione del Beato Angelico che affascinò Dalì e Garcìa Lorca, le dolci madonne di Bartolomé Esteban Murillo, il Cristo in Pietà di Antonello da Messina, la conturbante Giuditta di Rembrandt, il Ritratto di cardinale di Raffaello, il Trionfo della Morte di Bruegel il Vecchio, il precoce, smagliante paesaggio del Passaggio agli Inferi del fiammingo Johachim Patinir, il celeberrimo Autoritratto con guanti di Albrecht Dürer, l'intensa tela di Davide e Golia dipinta da Caravaggio, la scultorea Deposizione di Rogier Van der Weyden e le brillanti nature morte di Juan Sanchez Cotàn sono solo alcuni dei capolavori senza tempo che rapiscono gli occhi nelle sale del museo madrileno.
Ma è impossibile tacere delle oltre 900 opere di Francisco Goya y Lucientes, la più grande collezione al mondo dedicata all'eccentrico pittore aragonese: dai temi bucolici degli esordi, quando l'artista era soltanto un disegnatore di arazzi, ai dissacranti Capricci e agli incubi delle Pitture nere, incredibilmente in anticipo sui tempi. Fino ai dipinti del 2 e 3 maggio 1808, drammatiche testimonianze delle rivolte contro l'occupazione napoleonica e in seguito simboli dell'atrocità di ogni guerra.
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