Al cinema il 15, 16 e 17 aprile

Il museo del Prado. La corte delle meraviglie - La nostra recensione

Jeremy Irons davanti alla Lavanda dei piedi di Tintoretto, durante le riprese del docufilm Il Museo del Prado. La corte delle Meraviglie. Courtesy Nexo Digital
 

Samantha De Martin

13/04/2019

Quando, cinque secoli fa, Carlo V moriva nella selvaggia Estremadura, nella modesta palazzina nei pressi del monastero di San Jerónimo di Yuste, il suo ultimo sguardo andava alla Gloria di Tiziano, uno dei quadri più amati, che riportava alla mente dell’Imperatore del Sacro romano impero, la vanità del mondo e il conforto estremo del paradiso.
Oggi questo capolavoro, commissionato dal sovrano al pittore italiano, è una delle opere più rappresentative del museo del Prado di Madrid, uno degli 8mila pezzi d’arte conservati nella pinacoteca, tra le più importanti al mondo, luogo di memoria e specchio del presente.
La storia di questo tempio dell’arte che celebra nel 2019 i 200 anni dal giorno della sua “fondazione” - quel 19 novembre 1819 in cui per la prima volta si parlò di Museo Real de Pinturas - diventa un viaggio cinematografico attraverso le sale, le storie e le emozioni in uno dei musei d’arte più visitati al mondo. A raccontarlo, il docufilm Il Museo del Prado. La corte delle meraviglie, nelle sale solo 15, 16, 17 aprile, nell’ambito del progetto della Grande Arte al Cinema.
Scritta da Sabina Fedeli e diretta da Valeria Parisi, la nuova produzione 3D Produzioni e Nexo Digital, in collaborazione con il Museo del Prado, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e con la partecipazione di SKY Arte, vede il premio Oscar Jeremy Irons nei panni di una guida speciale.
 FOTO - Il Prado: meraviglioso scrigno di vita, sogni e memorie
Con il suo illustre canovaccio scritto da matrimoni e tavole imbandite, hidalgos e teste coronate, il film che racconta l’epopea, unica nel suo genere e che attraversa secoli di storua dell’arte, di una delle istituzioni culturali più importanti al mondo, è un racconto corale che, partendo da Madrid si espande a luoghi e personaggi legati da un filo sottile alla città spagnola, da Venezia a Roma, passando per Napoli. Dalla pittura cinetica di Tintoretto agli spazi tridimensionali di van der Weyden, dalle pitture nere dell’ultimo Goya - presente al Prado con un corpus ricchissimo di oltre novecento opere - alla Gloria di Tiziano, questo tempio dell’arte costruito più col cuore che con la testa grazie alla passione viscerale per il bello coltivata da ben tre dinastie, grandeggia nel film con il suo caleidoscopio di storie, aneddoti e capolavori.

Il film restituisce al pubblico opere prestigiose, come la Deposizione del fiammingo Van der Weyden, Les Meninas di Vélazquez, Il giardino delle delizie di Bosch, che accende nei visitatori di qualsiasi nazionalità e cultura, curiosità, aspettativa, attenzione.
Al pubblico viene offerta la possibilità di entrare all’interno del laboratorio di restauro, dove La tempesta di neve di Goya sembra porgere alle orecchie lo scalpitio del vento o il rumore dei passi che affondano nella neve.
Lo spettatore assapora così la storia di una crazione lenta, di uno scrigno nel quale, nei secoli, confluiscono opere, ritratti, commissionati dai sovrani ai più grandi artisti del tempo e custoditi inizialmente nei palazzi più rappresentativi del potere illuminato, come il Salon de Reinos - un’architettura volutamente spoglia che si anima di vita, luci, proiezioni, riportando il visitatore al glorioso passato della monarchia spagnola e al Siglo de Oro - o come l’Escorial, dove il film effettua frequenti incursioni, fatto costruire da Filippo II, e che accoglie capolavori di Tiziano, Bosch, El Greco. Quest’ultimo è proprio a Venezia che svilupperà l’inconfondibile stile dei suoi enormi dipinti, caratterizzati da corpi contorti e deformati e da un osare innovativo, fuori dalle regole.

Il viaggio cinematografico al museo del Prado, un affresco che contrappone interni ed esterni, quadri e palazzi, pennellate e giardini, tocca anche il Palazzo Reale di Madrid e il Convento de Las Descalzas Reales. E se è vero il detto madrileno, secondo cui “Veniamo tutti da qualche altra parte” ben si comprende la vocazione paneuropea della città spagnola che - oltre ad accogliere tra le stradine archaiche del Barrio de las Letras, scrittori quali Cervantes e Calderon de la Barca - ha attratto nel suo fruttuoso grembo artisti quali Diego Velázquez e, un secolo dopo, Francisco Goya.
Ecco perché, con rapide e calzanti peregrinazioni cinematografiche, il docufilm accompagna lo spettatore nella Madrid di oggi,
in un interessante incontro di nacchere e pennelli, capolavori e ballerine di flamenco, tessendo l’immagine di una capitale da sempre a forte vocazione artistica.

Icona di identità, il Prado - che prende il nome dal Prado de los Jerónimos, un insieme di solares e prati silvestri situati intorno al monastero di San Jerónimo el Real - racconta anche il fascino esercitato sui sovrani spagnoli, dediti più al mecenatismo che alla politica, dal linguaggio figurativo dei maestri veneziani, incontrati e corteggiati nella Serenissima dagli stessi Reali, a cominciare da Tiziano, per certi aspetti padre di questo museo, e che instaurerà con Carlo V un rapporto di mecenatismo quarantennale. Dopo di lui la corte spagnola di Filippo IV troverà in Tintoretto, Veronese, Rubens e Van dyck i suoi degni successori.

L’excursus tracciato dal docufilm non tralascia il periodo buio del museo, quel 1936 che segna l’inizio della guerra civile spagnola che trasformerà il Prado in un corpo morto, dando inizio alla straordinaria epopea dei capolavori che abbandonano temporaneamente il museo.
Quella del Prado è anche una storia di donne, come la pittrice fiamminga Clara Peeters, apripista della natura morta e sperimentatrice di un nuovo linguaggio abitato da pesci e formaggi.

In questa giostra variegata nella quale si intrecciano vite, storie, rapporti tra artisti e committenti, simili a rapide pennellate, Venere, adone e cupido di Annibale Carracci incontra l’Atalanta di Guido Reni, la sensualità dei corpi maschili del Cristo con la croce di Goya dialoga con la Maddalena di Jusepe de Ribera, uno dei più insoliti e anticonvenzionali dipinti di tutta la pittura del Seicento.

Il film - che intreccia alla narrazione d’arte anche lo studio dell’architettura e l’analisi di preziosi materiali d’archivio - si avvale del contributo di conservatori e curatori, oltre che di autorevoli testimonianze, come quella della figlia del pittore Antonio Saura - che visitava il museo di continuo per calarsi nell’atmosfera di un ambiente magico, e che definì il Prado “un tesoro di intensità” - della ballerina Olga Pericet o della fotografa Pilar Pequeño.
Il punto di forza della produzione è forse la capacità di raccontare non solo la bellezza formale e il fascino della collezione del Prado, ma di trasmettere al pubblico l’attualità delle tematiche trattate dalle opere esposte, capaci di esplorare la società, con i suoi ideali, i suoi pregiudizi, i vizi, le nuove concezioni, le scoperte scientifiche, le mode, la psicologia umana.
Nel parlare di questo specchio delle trasformazioni sociali, politiche e culturali della Spagna, in cui tutto parla di bellezza, Picasso, che nel 1936 fu direttore del Prado, scriveva: “l'arte lava via dalla nostra anima la polvere della vita di tutti i giorni”.

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