All'Eliseo fino al 4 marzo
A teatro con Van Gogh. Un viaggio nella mente del maestro, dal rapporto con l'arte all'odore assordante del bianco
Alessandro Preziosi e Massimo Nicolini in Vincent Van Gogh. L'odore assordante del bianco Foto: © Manuela Giusto
Samantha De Martin
19/02/2018
Roma - Non ci sono tele, né pastelli, e nemmeno campi di grano o cieli stellati. Non c’è altro colore se non il bianco a fare da cornice alla pièce che porta sul palcoscenico del teatro Eliseo un momento particolarmente drammatico e intenso della vita di Vincent Van Gogh.
Bianchi sono i petali che l’artista ha a lungo aspettato, nella speranza di avere almeno una traccia, sebbene l’unica all’interno di una stanza vuota e apparentemente senza vita, di quel colore che alla Maison de Santé di Saint-Paul-de-Mausole - dove le pareti, i vestiti e persino i fiori appaiono bianchi - risuona per tutti come “una bestemmia”. E bianchi sono anche i corvi, in volo sul celebre campo di grano, che sembrano dissolversi su una delle pareti del vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico nei pressi di Saint-Rémy-de-Provence, dove Vincent, dopo l’episodio della mutilazione dell’orecchio e dopo l'ennesimo deliquio, nel1889, decise di entrare volontariamente.
In una delle stanze di questa sorta di non luogo, in cui il tempo è senza tempo, in questo “castello imbiancato” fatto di vasche piene d’acqua, pazienti simili a scimmie, aggrappati ai lampadari, registri e deliri, trova spazio anche una riflessione potente sulla condizione dei manicomi nell’Ottocento, ma soprattutto trovano voce i pensieri, apparentemente senza briglie, del maestro che più di ogni altro ha saputo tradurre in colore la sua anima immensa e complessa.
Van Gogh. L’odore assordante del bianco, in scena fino al 4 marzo, è un thriller psicologico che attraverso l’imprevedibile metafora del temporaneo isolamento del maestro nell’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, nel 1889, in uno degli ultimi periodi della sua vita, cerca di creare un varco nell’anima e nella mente di Vincent. E lo spettatore cerca di farsi largo in questa stretta fessura fatta di intimità e riflessione, aggirandosi, in un continuo gioco di attese, sorprese, tensioni e smentite, e di nuovo attese, tra racconti, deliri, allucinazioni e ricordi d’infanzia del pittore, protagonista di questo universo ovattato, complesso, ora chiarissimo, ora incredibilmente oscuro e inaccessibile.
È il 1889 e l’unico desiderio del pittore, marcato come soggetto “socialmente fragile”, è quello di uscire dall’austera stanza del manicomio di Saint Paul dove è stato relegato e nella quale non c’è altro colore che il bianco. La sua prima speranza è riposta nell’inaspettata visita del fratello Theo che ha dovuto prendere quattro treni e un carretto per arrivare fin lì. Il serrato dialogo tra i due propone un lucido grandangolo sulla vicenda umana dell’artista, rivelando dettagli poco noti relativi alla vita di Vincent, e soprattutto scandagliando uno stadio sommerso della sua mente.
Vincitore del Premio Tondelli a Riccione Teatro 2005 per la “scrittura limpida, tesa, di rara immediatezza drammatica, capace di restituire il tormento dei personaggi con feroce immediatezza espressiva” lo spettacolo di Stefano Massini, con la sua drammaturgia asciutta eppur ricca di spunti poetici, offre - non soltanto agli amanti di Van Gogh, ma in generale, a chi ama cavalcare le affascinanti capriole dell’animo umano e della psiche, attratto da una costante tensione narrativa - un’opportunità di riflessione sul rapporto tra le arti e, in generale, sul ruolo dell’artista nella società contemporanea.
Assoggettato alla sua stessa dinamica cerebrale incarnata da un supremo Alessandro Preziosi, Van Gogh, che si aggira come in catene nella devastante neutralità di un vuoto, si lascia vivere già presente al suo disturbo. Il suo ragionato tentativo di sfuggire all’immutabilità del tempo, all’assenza di colore alla quale è costretto, a quell’irrimediabile strepito perenne di cui è vittima cosciente, si colloca in un contesto in cui lo spettatore, totalmente coinvolto in questa travolgente vicenda umana, osserva in un’atmosfera sospesa tra il senso del reale e il suo esatto opposto, nella quale tutto diventa ora chiaro, ora improvvisamente sfuggente.
Il dottor Peyron, Theo van Gogh, il dottor Vernon-Lazàre e gli infermieri Gustave e Roland, sono i personaggi che assistono e allo stesso tempo compongono la vicenda.
«Lo spettacolo - spiega il regista Alessandro Maggi - è un vero e proprio viaggio nel processo di creazione, da un lato del pittore Vincent Van Gogh, dall’altro dell’artista, in generale. Ogni artista, infatti ha una parte del suo percorso avvolta dal mistero, accessibile soltanto a lui».
In questa immersione sinestetica nell’animo di Vincent non mancano riferimenti al rapporto tra il pittore e l’arte - in particolare a quelle tele che lo stesso definisce “parte di me” - ma anche all’importanza del colore “senza il quale il disegno non vale nulla”, simile ai petali di un fiore e in grado di “entrare dagli occhi per uscire dalla punta del pennello”.
Chi è il pittore? “Il pittore è un imbecille socialmente fragile” e ancora “l’unico in grado di rendere visibile i propri pensieri”. Non mancano le opere, alcune citate nel corso dello spettacolo. La Berceuse, conservata oggi al Museo Kröller-Müller di Otterlo e dipinta da Van Gogh nel 1889, raffigura Augustine Roulin, moglie del postino amico di Vincent, nella cui figura il pittore ha voluto racchiudere il mito femminile della moglie e della madre, capace di consolare e di placare l'animo. Nel volto, nelle mani, nello sguardo di questa donna, il cui quadro doveva costituire il pannello centrale di un trittico da appendere nelle cabine di una nave per ricordare ai marinai la dolcezza di una ninna nanna, c’è la stessa malinconica espressione tipica della madre che ha sacrificato tutto di sé. Il quadro non compare sulla scena, ma viene solo citato tra quelli che Vincent vorrebbe regalare a Gauguin.
«Le opere - spiega Maggi - non vengono esaminate attraverso uno studio analitico, ed è proprio questo a caratterizzare la bellezza del testo di Massini. Anche dal punto di vista della scenografia, non siamo di fronte a uno spettacolo realistico, ma a momenti che si susseguono per astrazione».
Anche la scenografia è interessante: una stanza con due pareti laterali scoscese e una grande parete di fondo, staccate, che trasmettono un senso di oppressione, ma anche di possibile apertura.
«Non c’è un dramma che è solo struggimento, bensì l’azione di un personaggio votato alla ricerca della risoluzione di un problema che sta dentro di lui attraverso l’esplicitazione artistica» dice Maggi. Oltre che attraverso le lettere inviate da Vincent al fratello Theo, il percorso è costruito soprattutto grazie al potenziamento del ricorso alla parola.
«Ogni parola - spiega Maggi - è evocatrice di immagini, intenzione, materia».
In questo continuo avvicendarsi di aspettive e colpi di scena dove il pubblico ha l’impressione che qualcosa di immenso ed inatteso stia per verificarsi, si arriva alla sorpresa finale. Un’immagine che chiude, anche se non definitivamente, il viaggio nella mente di Vincent, una continua ricerca della comprensibilità della sua arte, che non si verificherà mai del tutto pienamente.
Leggi anche:
• Nomination agli Oscar per Loving Vincent
• Loving Vincent. La nostra recensione
Bianchi sono i petali che l’artista ha a lungo aspettato, nella speranza di avere almeno una traccia, sebbene l’unica all’interno di una stanza vuota e apparentemente senza vita, di quel colore che alla Maison de Santé di Saint-Paul-de-Mausole - dove le pareti, i vestiti e persino i fiori appaiono bianchi - risuona per tutti come “una bestemmia”. E bianchi sono anche i corvi, in volo sul celebre campo di grano, che sembrano dissolversi su una delle pareti del vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico nei pressi di Saint-Rémy-de-Provence, dove Vincent, dopo l’episodio della mutilazione dell’orecchio e dopo l'ennesimo deliquio, nel1889, decise di entrare volontariamente.
In una delle stanze di questa sorta di non luogo, in cui il tempo è senza tempo, in questo “castello imbiancato” fatto di vasche piene d’acqua, pazienti simili a scimmie, aggrappati ai lampadari, registri e deliri, trova spazio anche una riflessione potente sulla condizione dei manicomi nell’Ottocento, ma soprattutto trovano voce i pensieri, apparentemente senza briglie, del maestro che più di ogni altro ha saputo tradurre in colore la sua anima immensa e complessa.
Van Gogh. L’odore assordante del bianco, in scena fino al 4 marzo, è un thriller psicologico che attraverso l’imprevedibile metafora del temporaneo isolamento del maestro nell’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, nel 1889, in uno degli ultimi periodi della sua vita, cerca di creare un varco nell’anima e nella mente di Vincent. E lo spettatore cerca di farsi largo in questa stretta fessura fatta di intimità e riflessione, aggirandosi, in un continuo gioco di attese, sorprese, tensioni e smentite, e di nuovo attese, tra racconti, deliri, allucinazioni e ricordi d’infanzia del pittore, protagonista di questo universo ovattato, complesso, ora chiarissimo, ora incredibilmente oscuro e inaccessibile.
È il 1889 e l’unico desiderio del pittore, marcato come soggetto “socialmente fragile”, è quello di uscire dall’austera stanza del manicomio di Saint Paul dove è stato relegato e nella quale non c’è altro colore che il bianco. La sua prima speranza è riposta nell’inaspettata visita del fratello Theo che ha dovuto prendere quattro treni e un carretto per arrivare fin lì. Il serrato dialogo tra i due propone un lucido grandangolo sulla vicenda umana dell’artista, rivelando dettagli poco noti relativi alla vita di Vincent, e soprattutto scandagliando uno stadio sommerso della sua mente.
Vincitore del Premio Tondelli a Riccione Teatro 2005 per la “scrittura limpida, tesa, di rara immediatezza drammatica, capace di restituire il tormento dei personaggi con feroce immediatezza espressiva” lo spettacolo di Stefano Massini, con la sua drammaturgia asciutta eppur ricca di spunti poetici, offre - non soltanto agli amanti di Van Gogh, ma in generale, a chi ama cavalcare le affascinanti capriole dell’animo umano e della psiche, attratto da una costante tensione narrativa - un’opportunità di riflessione sul rapporto tra le arti e, in generale, sul ruolo dell’artista nella società contemporanea.
Assoggettato alla sua stessa dinamica cerebrale incarnata da un supremo Alessandro Preziosi, Van Gogh, che si aggira come in catene nella devastante neutralità di un vuoto, si lascia vivere già presente al suo disturbo. Il suo ragionato tentativo di sfuggire all’immutabilità del tempo, all’assenza di colore alla quale è costretto, a quell’irrimediabile strepito perenne di cui è vittima cosciente, si colloca in un contesto in cui lo spettatore, totalmente coinvolto in questa travolgente vicenda umana, osserva in un’atmosfera sospesa tra il senso del reale e il suo esatto opposto, nella quale tutto diventa ora chiaro, ora improvvisamente sfuggente.
Il dottor Peyron, Theo van Gogh, il dottor Vernon-Lazàre e gli infermieri Gustave e Roland, sono i personaggi che assistono e allo stesso tempo compongono la vicenda.
«Lo spettacolo - spiega il regista Alessandro Maggi - è un vero e proprio viaggio nel processo di creazione, da un lato del pittore Vincent Van Gogh, dall’altro dell’artista, in generale. Ogni artista, infatti ha una parte del suo percorso avvolta dal mistero, accessibile soltanto a lui».
In questa immersione sinestetica nell’animo di Vincent non mancano riferimenti al rapporto tra il pittore e l’arte - in particolare a quelle tele che lo stesso definisce “parte di me” - ma anche all’importanza del colore “senza il quale il disegno non vale nulla”, simile ai petali di un fiore e in grado di “entrare dagli occhi per uscire dalla punta del pennello”.
Chi è il pittore? “Il pittore è un imbecille socialmente fragile” e ancora “l’unico in grado di rendere visibile i propri pensieri”. Non mancano le opere, alcune citate nel corso dello spettacolo. La Berceuse, conservata oggi al Museo Kröller-Müller di Otterlo e dipinta da Van Gogh nel 1889, raffigura Augustine Roulin, moglie del postino amico di Vincent, nella cui figura il pittore ha voluto racchiudere il mito femminile della moglie e della madre, capace di consolare e di placare l'animo. Nel volto, nelle mani, nello sguardo di questa donna, il cui quadro doveva costituire il pannello centrale di un trittico da appendere nelle cabine di una nave per ricordare ai marinai la dolcezza di una ninna nanna, c’è la stessa malinconica espressione tipica della madre che ha sacrificato tutto di sé. Il quadro non compare sulla scena, ma viene solo citato tra quelli che Vincent vorrebbe regalare a Gauguin.
«Le opere - spiega Maggi - non vengono esaminate attraverso uno studio analitico, ed è proprio questo a caratterizzare la bellezza del testo di Massini. Anche dal punto di vista della scenografia, non siamo di fronte a uno spettacolo realistico, ma a momenti che si susseguono per astrazione».
Anche la scenografia è interessante: una stanza con due pareti laterali scoscese e una grande parete di fondo, staccate, che trasmettono un senso di oppressione, ma anche di possibile apertura.
«Non c’è un dramma che è solo struggimento, bensì l’azione di un personaggio votato alla ricerca della risoluzione di un problema che sta dentro di lui attraverso l’esplicitazione artistica» dice Maggi. Oltre che attraverso le lettere inviate da Vincent al fratello Theo, il percorso è costruito soprattutto grazie al potenziamento del ricorso alla parola.
«Ogni parola - spiega Maggi - è evocatrice di immagini, intenzione, materia».
In questo continuo avvicendarsi di aspettive e colpi di scena dove il pubblico ha l’impressione che qualcosa di immenso ed inatteso stia per verificarsi, si arriva alla sorpresa finale. Un’immagine che chiude, anche se non definitivamente, il viaggio nella mente di Vincent, una continua ricerca della comprensibilità della sua arte, che non si verificherà mai del tutto pienamente.
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