Nuovo percorso espositivo in mostra al LAC
A Lugano, sulle vie dell’illuminazione indiana
Edwin Lord Weeks, The Last Voyage, 1885
Samantha De Martin
20/10/2017
Profumo di curry e riso basmati, cinema, danza, sessioni di yoga, i colori del lago di Lugano che bucano le ampie vetrate del LAC, il principale museo d’arte della città, in un panismo superbo che fa bene all’anima.
Sarà forse l’atmosfera intensa, sprigionata dall’incontro, in uno stesso luogo, tra le riflessioni sul buddismo di Schopenhauer e le analisi antropologiche di Jung, tra il cinema di Pasolini e la sperimentazione psichedelica dei Beatles, tra gli scatti “indiani” di Henri Cartier- Bresson e quelli di Bischof e Steve McCurry, saranno le influenze dal subcontinente indiano ereditate da Le Corbusier, Robert Rauschenberg, Ettore Sottsass, a rendere il nuovo percorso espositivo in mostra al MASI di Lugano fino al 21 gennaio, un’esperienza assolutamente emozionante, che seduce i cinque sensi.
“Sulle vie dell’illuminazione. Il mito dell’India nella cultura occidentale 1808-2017” è una mostra totale, che sorprende, stuzzica, si fa guardare, studiare più volte. Assomiglia un caleidoscopio di colori, musiche, immagini, danze che dimostrano quanto il Paese abbia lasciato della cultura e della suo popolo nella tradizione, nell’arte, nella letteratura occidentale.
Elio Schenini, curatore della mostra, per spiegare cosa di questo mito dell’India sia rimasto ancora oggi, di fronte a una realtà sempre più globale, tira fuori dal cappello un “volumetto” di 300 pagine di Friedrich Schlegel.
«Nel 1808 - spiega Schenini - la pubblicazione di “Sulla lingua e la sapienza degli indiani” di Friedrich Schlegel inaugura l’emergere di una nuova e sempre più intensa curiosità dell’Occidente per l’India e la sua straordinaria civiltà».
Convinto sostenitore che il sanscrito rappresentasse la lingua originaria dalla quale avevano avuto origine lingue apparentemente diverse tra loro, il filosofo sosteneva la necessità di approfondire la conoscenza degli antichi testi nei quali era raccolto il pensiero indiano.
E d’altra parte gli antichi sembravano essere già consapevoli di questa forza, con la loro sentenza ex Oriente lux.
«I primi a percorrere le polverose strade dell’India - continua Schenini - furono i vedutisti inglesi che, con le loro stampe, resero familiari i grandiosi monumenti, gli ampi paesaggi popolati di animali esotici e gruppi etnici. Accanto ai grandi pittori orientalisti, dall’americano Edwin Lord Weeks al russo Vasilij Vereščagin, ci sono poi quegli autori come Emilio Salgari o il pittore francese Gustave Moreau che l’India non la videro mai, eppure non smisero di rappresentarla, in quel suo trascolorare in una dimensione di sogno e di mistero».
Come ribadisce Schenini, ripercorrere gli innumerevoli episodi che compongono la storia della fascinazione indiana dell’Occidente nell’anno in cui l’India celebra il settantesimo della propria indipendenza, «è anche un modo per riflettere sul carattere esemplare che questi incroci culturali tra Oriente e Occidente possono avere, in un momento in cui si avvertono con forza le tensioni prodotte dalla globalizzazione, e in cui più che gli incontri sembrano prevalere gli scontri di civiltà».
Luigi Ontani, Krishna, 1978 Collezione Fabio-Sargentini
Tutti pazzi per l’India, allora. Ma l’attrazione speciale, soprattutto nei confronti della ritualità e delle pratiche indiane, è fenomeno lontano?
«La meditazione e lo yoga - continua il curatore della mostra - iniziavano ad esser praticati in Europa mentre l’Occidente scopriva le pratiche millenarie dell’Induismo e del Buddismo. Con questo mondo, che aveva uno dei suoi principali centri di irradiazione nella colonia del Monte Verità ad Ascona, era in contatto anche Hermann Hesse che, nel 1922 con il suo Siddharta (in mostra è presente un dattiloscritto ndr) offrì alla gioventù del XX secolo un romanzo di formazione che incarnava una visione alternativa a quella ispirata ai valori borghesi della società capitalista. Sarà proprio la riscoperta di questo libro negli anni Sessanta a guidare un’intera generazione di giovani occidentali in India sulle rotte dell’Hippie trail, seguendo le orme di Allen Ginsberg e dei Beatles. Per gli esponenti della controcultura giovanile, l’India, con i suoi santoni, le sue droghe, la sua spiritualità, la sua povertà, la sua musica, rappresentava poi il contraltare di un Occidente sottomesso alle logiche del consumismo di massa».
Scivolando lungo questo ipnotico percorso espositivo, perfettamente allestito, lanciando di tanto in tanto (impossibile non farlo) uno sguardo al lago sonnecchiante, ci si imbatte, tra le oltre 400 opere in mostra al MASI - il Museo d'Arte della Svizzera italiana, in un’intera parete tappezzata delle coloratissime cover degli album dei Beatles ispirati all’India.
Ma non passano inosservati nemmeno l’ Indian Decor di Toulouse-Lautrec, l’ Eterna primavera di Rodin - che incatena lo sguardo con la sua coppia di amanti avvinghiati in un bacio appassionato - Werner Bischof con il Porto di Calcutta, e ancora il Palazzo dell’Assemblea di Chandigarh progettato da Le Corbusier, i vasi della serie Tantra di Ettore Sottsass, le belle fotografie di Steve McCurry, accanto a quelle che ritraggono fachiri e incantatori di serpenti, soldati del maharaja del Kashmir e danzatrici. Malinconica, nella sua intima composta rassegnazione, la pittura The Last Voyage di Edwin Lord Weeks.
Walter Bosshard, Gandhi legge le corrispondenze di guerra, 1930
E così la magia dell’India travolge a 360 gradi così nuovo gioiello culturale di Lugano - progettato dall’architetto svizzero Ivano Gianola, inaugurato nel 2015, dedicato alle arti visive, alla musica e al teatro - conquista con i suoi profumi anche la piazza, la più grande della città, divenuta una sorta di vivace agorà soprattutto nelle giornate in cui il sole solletica la superficie dell’adiacente lago e fa brillare le facciate rivestite in pietra naturale verde Guatemala.
Ed è proprio all’interno di questa bella e luminosa struttura, caratterizzata da vocazione internazionale e trasversalità, che, come la dea Kalì, l’india muove le sue braccia e al suo richiamo rispondono, nei secoli, dall’Ottocento a oggi, artisti diversi sedotti dalla sua magia sempre attuale.
Una magia che rivive anche nelle numerose iniziative che si svolgono al LAC in occasione della mostra, dal Saluto al sole - in programma nella hall del museo - al Diwali, la grande festa induista dedicata alla luce, celebrata nella notte di luna piena del mese di Kartika, dai workshop per bambini dedicati ai mandala, ai corsi di Yoga, alle letture e agli incontri di approfondimento, passando persino dalle degustazioni dei piatti indiani più popolari.
Sulle vie dell’illuminazione più che una mostra è un’esperienza sinestetica, un viaggio appassionato nei riflessi cangianti di una cultura che oggi, come ieri, continua ad ammaliare con il suo poliedrico fascino. Uscendo dal MASI la sua magia rimane addosso, con le sue note, i suoi profumi. Forse ci vedeva lungo Arthur Schopenhauer quando scriveva: «la saggezza indiana fluirà indietro verso l'Europa, e produrrà cambiamenti fondamentali nel nostro pensiero e nelle nostre conoscenze».
Ed oggi, a distanza di secoli, come dargli torto.
Sarà forse l’atmosfera intensa, sprigionata dall’incontro, in uno stesso luogo, tra le riflessioni sul buddismo di Schopenhauer e le analisi antropologiche di Jung, tra il cinema di Pasolini e la sperimentazione psichedelica dei Beatles, tra gli scatti “indiani” di Henri Cartier- Bresson e quelli di Bischof e Steve McCurry, saranno le influenze dal subcontinente indiano ereditate da Le Corbusier, Robert Rauschenberg, Ettore Sottsass, a rendere il nuovo percorso espositivo in mostra al MASI di Lugano fino al 21 gennaio, un’esperienza assolutamente emozionante, che seduce i cinque sensi.
“Sulle vie dell’illuminazione. Il mito dell’India nella cultura occidentale 1808-2017” è una mostra totale, che sorprende, stuzzica, si fa guardare, studiare più volte. Assomiglia un caleidoscopio di colori, musiche, immagini, danze che dimostrano quanto il Paese abbia lasciato della cultura e della suo popolo nella tradizione, nell’arte, nella letteratura occidentale.
Elio Schenini, curatore della mostra, per spiegare cosa di questo mito dell’India sia rimasto ancora oggi, di fronte a una realtà sempre più globale, tira fuori dal cappello un “volumetto” di 300 pagine di Friedrich Schlegel.
«Nel 1808 - spiega Schenini - la pubblicazione di “Sulla lingua e la sapienza degli indiani” di Friedrich Schlegel inaugura l’emergere di una nuova e sempre più intensa curiosità dell’Occidente per l’India e la sua straordinaria civiltà».
Convinto sostenitore che il sanscrito rappresentasse la lingua originaria dalla quale avevano avuto origine lingue apparentemente diverse tra loro, il filosofo sosteneva la necessità di approfondire la conoscenza degli antichi testi nei quali era raccolto il pensiero indiano.
E d’altra parte gli antichi sembravano essere già consapevoli di questa forza, con la loro sentenza ex Oriente lux.
«I primi a percorrere le polverose strade dell’India - continua Schenini - furono i vedutisti inglesi che, con le loro stampe, resero familiari i grandiosi monumenti, gli ampi paesaggi popolati di animali esotici e gruppi etnici. Accanto ai grandi pittori orientalisti, dall’americano Edwin Lord Weeks al russo Vasilij Vereščagin, ci sono poi quegli autori come Emilio Salgari o il pittore francese Gustave Moreau che l’India non la videro mai, eppure non smisero di rappresentarla, in quel suo trascolorare in una dimensione di sogno e di mistero».
Come ribadisce Schenini, ripercorrere gli innumerevoli episodi che compongono la storia della fascinazione indiana dell’Occidente nell’anno in cui l’India celebra il settantesimo della propria indipendenza, «è anche un modo per riflettere sul carattere esemplare che questi incroci culturali tra Oriente e Occidente possono avere, in un momento in cui si avvertono con forza le tensioni prodotte dalla globalizzazione, e in cui più che gli incontri sembrano prevalere gli scontri di civiltà».
Luigi Ontani, Krishna, 1978 Collezione Fabio-Sargentini
Tutti pazzi per l’India, allora. Ma l’attrazione speciale, soprattutto nei confronti della ritualità e delle pratiche indiane, è fenomeno lontano?
«La meditazione e lo yoga - continua il curatore della mostra - iniziavano ad esser praticati in Europa mentre l’Occidente scopriva le pratiche millenarie dell’Induismo e del Buddismo. Con questo mondo, che aveva uno dei suoi principali centri di irradiazione nella colonia del Monte Verità ad Ascona, era in contatto anche Hermann Hesse che, nel 1922 con il suo Siddharta (in mostra è presente un dattiloscritto ndr) offrì alla gioventù del XX secolo un romanzo di formazione che incarnava una visione alternativa a quella ispirata ai valori borghesi della società capitalista. Sarà proprio la riscoperta di questo libro negli anni Sessanta a guidare un’intera generazione di giovani occidentali in India sulle rotte dell’Hippie trail, seguendo le orme di Allen Ginsberg e dei Beatles. Per gli esponenti della controcultura giovanile, l’India, con i suoi santoni, le sue droghe, la sua spiritualità, la sua povertà, la sua musica, rappresentava poi il contraltare di un Occidente sottomesso alle logiche del consumismo di massa».
Scivolando lungo questo ipnotico percorso espositivo, perfettamente allestito, lanciando di tanto in tanto (impossibile non farlo) uno sguardo al lago sonnecchiante, ci si imbatte, tra le oltre 400 opere in mostra al MASI - il Museo d'Arte della Svizzera italiana, in un’intera parete tappezzata delle coloratissime cover degli album dei Beatles ispirati all’India.
Ma non passano inosservati nemmeno l’ Indian Decor di Toulouse-Lautrec, l’ Eterna primavera di Rodin - che incatena lo sguardo con la sua coppia di amanti avvinghiati in un bacio appassionato - Werner Bischof con il Porto di Calcutta, e ancora il Palazzo dell’Assemblea di Chandigarh progettato da Le Corbusier, i vasi della serie Tantra di Ettore Sottsass, le belle fotografie di Steve McCurry, accanto a quelle che ritraggono fachiri e incantatori di serpenti, soldati del maharaja del Kashmir e danzatrici. Malinconica, nella sua intima composta rassegnazione, la pittura The Last Voyage di Edwin Lord Weeks.
Walter Bosshard, Gandhi legge le corrispondenze di guerra, 1930
E così la magia dell’India travolge a 360 gradi così nuovo gioiello culturale di Lugano - progettato dall’architetto svizzero Ivano Gianola, inaugurato nel 2015, dedicato alle arti visive, alla musica e al teatro - conquista con i suoi profumi anche la piazza, la più grande della città, divenuta una sorta di vivace agorà soprattutto nelle giornate in cui il sole solletica la superficie dell’adiacente lago e fa brillare le facciate rivestite in pietra naturale verde Guatemala.
Ed è proprio all’interno di questa bella e luminosa struttura, caratterizzata da vocazione internazionale e trasversalità, che, come la dea Kalì, l’india muove le sue braccia e al suo richiamo rispondono, nei secoli, dall’Ottocento a oggi, artisti diversi sedotti dalla sua magia sempre attuale.
Una magia che rivive anche nelle numerose iniziative che si svolgono al LAC in occasione della mostra, dal Saluto al sole - in programma nella hall del museo - al Diwali, la grande festa induista dedicata alla luce, celebrata nella notte di luna piena del mese di Kartika, dai workshop per bambini dedicati ai mandala, ai corsi di Yoga, alle letture e agli incontri di approfondimento, passando persino dalle degustazioni dei piatti indiani più popolari.
Sulle vie dell’illuminazione più che una mostra è un’esperienza sinestetica, un viaggio appassionato nei riflessi cangianti di una cultura che oggi, come ieri, continua ad ammaliare con il suo poliedrico fascino. Uscendo dal MASI la sua magia rimane addosso, con le sue note, i suoi profumi. Forse ci vedeva lungo Arthur Schopenhauer quando scriveva: «la saggezza indiana fluirà indietro verso l'Europa, e produrrà cambiamenti fondamentali nel nostro pensiero e nelle nostre conoscenze».
Ed oggi, a distanza di secoli, come dargli torto.
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