Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre
Dal 02 Febbraio 2013 al 16 Giugno 2013
Forlì | Forlì-Cesena
Luogo: Musei San Domenico
Indirizzo: piazza Guido da Montefeltro
Telefono per informazioni: 199 757 515/ 049 663499
E-Mail info: gestione1@studioesseci.net
Sito ufficiale: http://www.mostranovecento.it
Dopo aver dedicato una grande mostra a un protagonista degli Anni Venti del Novecento come Wildt, Forlì intende approfondire un altro momento della cultura figurativa del secolo scorso, relativamente al clima di un’epoca che ha lasciato una forte impronta, soprattutto dal punto di vista urbanistico e architettonico, sulla città di Forlì e su molti altri centri della Romagna.
Nel primo dopoguerra, da cui prende avvio la mostra per inoltrarsi fino all’epilogo tragico del secondo conflitto mondiale e del fatidico 1943, la cultura italiana, attraverso i suoi migliori esponenti, si sentì investita della missione di creare nuove espressioni artistiche per il Novecento,
secolo che non si era in realtà ancora rivelato. Il più lucido interprete di questa missione fu il letterato Massimo Bontempelli, che nel 1926 dando vita alla rivista “900” dichiarava: “Il Novecento ci ha messo molto a spuntare.
L’Ottocento non poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra”. La nuova esposizione ai Musei San Domenico intende rievocare un clima che ha visto non solo architetti, pittori e scultori, ma anche designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi, creatori di moda cimentarsi in un grande progetto comune che rispondeva, attraverso una profonda revisione del ruolo dell’artista, alle istanze del cosiddetto “ritorno all’ordine”. Il rappel à l’ordre, manifestatosi già durante gli anni della guerra, scaturiva dalla crisi delle avanguardie storiche, in particolare il Cubismo e il Futurismo, considerate l’ultima espressione di un processo di dissolvimento dell’ideale classico che era iniziato con il Romanticismo e si era accentuato con l’Impressionismo e i movimenti come il Divisionismo e il Simbolismo che lo avevano seguito.
Nasceva non come semplice ritorno al passato, ma come ripresa dei soli canoni ritenuti adatti alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica. “Una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme”, per Carlo Carrà, mentre De Chirico concludeva il suo scritto programmatico sul ritorno della figura umana esclamando: “Pictor classicus sum”.
Il modello di una ritrovata armonia tra tradizione e modernità, sostenuto da questi artisti – tra cui ebbero un rilievo maggiore Felice Casorati, Achille Funi, Mario Sironi, Carlo Carrà, Adolfo Wildt e Arturo Martini – avrà, anche grazie allo spirito critico e organizzativo di Margherita Sarfatti, il sostegno da parte del regime che era alla ricerca della definizione di un’arte di Stato, come il lungo e differenziato dibattito sulle riviste dimostra. I regimi dittatoriali europei non mancheranno di utilizzare a fini propagandistici e di consenso il linguaggio classicista degli artisti e in molti casi la loro stessa complicità. Ma l’altezza della loro arte non può essere negletta o appiattita su ragioni ideologiche.
La mostra rievoca le principali occasioni in cui gli artisti si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti proposti dal Fascismo, basti pensare all’architettura pubblica, alla pittura murale e alla scultura monumentale. Verranno documentate la I (1926) e la II (1929) Mostra del Novecento Italiano; la grande Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma nel 1932-1933 in occasione del decennale della marcia su Roma; la V Triennale di Milano (che vide la con-sacrazione della pittura murale intesa come arte nazionalpopolare volta a far rivivere una tradizione illustre); la rassegna dell’ E42 di Roma. La pittura murale e la scultura monumentale, che furono con l’architettura l’espressione più significativa e riuscita di quel periodo, vengono indagate all’interno degli edifici pubblici, come i palazzi di giustizia, delle poste, delle università. La considerazione delle più impegnative realizzazioni urbanistiche e architettoniche ci consente di capire quanto è stato realizzato anche a Forlì e in altri centri della Romagna.
La mostra presenta i grandi temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che hanno aderito alle direttive del regime, partecipando ai concorsi e aggiudicandosi le commissioni pubbliche, e da coloro che hanno attraversato quel clima alla ricerca di un nuovo rapporto tra le esigenze della contemporaneità e la tradizione, tra l’arte e il pubblico. La presenza di dipinti, sculture, cartoni per affreschi, opere di grafica, cartelloni murali, mobili, oggetti d’arredo, gioielli, abiti, intende offrire una visione a tutto tondo del rapporto tra le arti e le espressioni del costume e della vita, confrontando artisti e materiali diversi. L’obiettivo comune era, infatti, quello di ridefinire ogni aspetto della realtà e della vita, passando dal mito classico a una mitologia tutta contemporanea.
Il compito dell’artista, così lo sintetizza Bontempelli, diviene quello di “inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura”.
Attraverso i maggiori protagonisti (pittori come Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Depero, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Dudreville, Dottori, Funi, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Prampolini, Sbisà, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, e scultori come Martini, Andreotti, Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli) risalterà la varietà delle esperienze tra Metafisica, Realismo Magico e le grandi mitologie del Novecento.
Questo superamento della pittura da cavalletto per recuperare il rapporto tra la pittura e l’architettura significò il grande ritorno al Quattrocento italiano visto come fonte di ispirazione per gli artisti contemporanei. Giotto, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca, per quel loro realismo preciso, avvolto in una atmosfera di stupore lucido, appaiono particolarmente vicini. Guardare al
Quattrocento o all’antichità non significava recidere i legami con l’arte contemporanea europea, certo non con quegli artisti che, come Picasso e Derain, a partire dal secondo decennio del Novecento avevano già fatto lo stesso percorso, passando dalla scomposizione e dall’astrazione
cubista alla ricomposizione della figura e a una nuova classicità in cui venivano presi a modello l’antico e la tradizione italiana.
Non solo i dipinti, le sculture o l’architettura, ma anche le opere di grafica e i manifesti diventarono parte integrante dell’immagine della città moderna. Il Novecento passò dall’arte alta agli oggetti della vita quotidiana, dove si respirava la stessa atmosfera di ritorno alla misura classica, anche nella manipolazione di materiali preziosi. Lo testimoniano gli splendidi mobili e gli altri oggetti di arredo disegnati da Piacentini, Cambellotti, Pagano, Montalcini, Muzio, Gio Ponti e i gioielli realizzati da Alfredo Ravasco. Mai come nel Novecento anche le vicende della moda si intrecciarono e si identificarono con quelle della cultura e della politica, originando, tra il sogno parigino e l’autarchia, la prospettiva della grande moda italiana.
Nel primo dopoguerra, da cui prende avvio la mostra per inoltrarsi fino all’epilogo tragico del secondo conflitto mondiale e del fatidico 1943, la cultura italiana, attraverso i suoi migliori esponenti, si sentì investita della missione di creare nuove espressioni artistiche per il Novecento,
secolo che non si era in realtà ancora rivelato. Il più lucido interprete di questa missione fu il letterato Massimo Bontempelli, che nel 1926 dando vita alla rivista “900” dichiarava: “Il Novecento ci ha messo molto a spuntare.
L’Ottocento non poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra”. La nuova esposizione ai Musei San Domenico intende rievocare un clima che ha visto non solo architetti, pittori e scultori, ma anche designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi, creatori di moda cimentarsi in un grande progetto comune che rispondeva, attraverso una profonda revisione del ruolo dell’artista, alle istanze del cosiddetto “ritorno all’ordine”. Il rappel à l’ordre, manifestatosi già durante gli anni della guerra, scaturiva dalla crisi delle avanguardie storiche, in particolare il Cubismo e il Futurismo, considerate l’ultima espressione di un processo di dissolvimento dell’ideale classico che era iniziato con il Romanticismo e si era accentuato con l’Impressionismo e i movimenti come il Divisionismo e il Simbolismo che lo avevano seguito.
Nasceva non come semplice ritorno al passato, ma come ripresa dei soli canoni ritenuti adatti alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica. “Una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme”, per Carlo Carrà, mentre De Chirico concludeva il suo scritto programmatico sul ritorno della figura umana esclamando: “Pictor classicus sum”.
Il modello di una ritrovata armonia tra tradizione e modernità, sostenuto da questi artisti – tra cui ebbero un rilievo maggiore Felice Casorati, Achille Funi, Mario Sironi, Carlo Carrà, Adolfo Wildt e Arturo Martini – avrà, anche grazie allo spirito critico e organizzativo di Margherita Sarfatti, il sostegno da parte del regime che era alla ricerca della definizione di un’arte di Stato, come il lungo e differenziato dibattito sulle riviste dimostra. I regimi dittatoriali europei non mancheranno di utilizzare a fini propagandistici e di consenso il linguaggio classicista degli artisti e in molti casi la loro stessa complicità. Ma l’altezza della loro arte non può essere negletta o appiattita su ragioni ideologiche.
La mostra rievoca le principali occasioni in cui gli artisti si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti proposti dal Fascismo, basti pensare all’architettura pubblica, alla pittura murale e alla scultura monumentale. Verranno documentate la I (1926) e la II (1929) Mostra del Novecento Italiano; la grande Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma nel 1932-1933 in occasione del decennale della marcia su Roma; la V Triennale di Milano (che vide la con-sacrazione della pittura murale intesa come arte nazionalpopolare volta a far rivivere una tradizione illustre); la rassegna dell’ E42 di Roma. La pittura murale e la scultura monumentale, che furono con l’architettura l’espressione più significativa e riuscita di quel periodo, vengono indagate all’interno degli edifici pubblici, come i palazzi di giustizia, delle poste, delle università. La considerazione delle più impegnative realizzazioni urbanistiche e architettoniche ci consente di capire quanto è stato realizzato anche a Forlì e in altri centri della Romagna.
La mostra presenta i grandi temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che hanno aderito alle direttive del regime, partecipando ai concorsi e aggiudicandosi le commissioni pubbliche, e da coloro che hanno attraversato quel clima alla ricerca di un nuovo rapporto tra le esigenze della contemporaneità e la tradizione, tra l’arte e il pubblico. La presenza di dipinti, sculture, cartoni per affreschi, opere di grafica, cartelloni murali, mobili, oggetti d’arredo, gioielli, abiti, intende offrire una visione a tutto tondo del rapporto tra le arti e le espressioni del costume e della vita, confrontando artisti e materiali diversi. L’obiettivo comune era, infatti, quello di ridefinire ogni aspetto della realtà e della vita, passando dal mito classico a una mitologia tutta contemporanea.
Il compito dell’artista, così lo sintetizza Bontempelli, diviene quello di “inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura”.
Attraverso i maggiori protagonisti (pittori come Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Depero, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Dudreville, Dottori, Funi, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Prampolini, Sbisà, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, e scultori come Martini, Andreotti, Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli) risalterà la varietà delle esperienze tra Metafisica, Realismo Magico e le grandi mitologie del Novecento.
Questo superamento della pittura da cavalletto per recuperare il rapporto tra la pittura e l’architettura significò il grande ritorno al Quattrocento italiano visto come fonte di ispirazione per gli artisti contemporanei. Giotto, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca, per quel loro realismo preciso, avvolto in una atmosfera di stupore lucido, appaiono particolarmente vicini. Guardare al
Quattrocento o all’antichità non significava recidere i legami con l’arte contemporanea europea, certo non con quegli artisti che, come Picasso e Derain, a partire dal secondo decennio del Novecento avevano già fatto lo stesso percorso, passando dalla scomposizione e dall’astrazione
cubista alla ricomposizione della figura e a una nuova classicità in cui venivano presi a modello l’antico e la tradizione italiana.
Non solo i dipinti, le sculture o l’architettura, ma anche le opere di grafica e i manifesti diventarono parte integrante dell’immagine della città moderna. Il Novecento passò dall’arte alta agli oggetti della vita quotidiana, dove si respirava la stessa atmosfera di ritorno alla misura classica, anche nella manipolazione di materiali preziosi. Lo testimoniano gli splendidi mobili e gli altri oggetti di arredo disegnati da Piacentini, Cambellotti, Pagano, Montalcini, Muzio, Gio Ponti e i gioielli realizzati da Alfredo Ravasco. Mai come nel Novecento anche le vicende della moda si intrecciarono e si identificarono con quelle della cultura e della politica, originando, tra il sogno parigino e l’autarchia, la prospettiva della grande moda italiana.
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