In un luogo simbolo della storia di Beirut, in mostra le opere di Zena el Khalil
La Fondazione Merz in Libano per un evento di pace e rigenerazione
Courtesy Fondazione Merz |
Zena el Khalil, Beirut I l love you
Francesca Grego
24/07/2017
Mondo - Avrà un’anima italiana il progetto di pace e riconciliazione che a quasi 30 anni dalla fine della guerra civile libanese animerà il cuore di Beirut a partire dal 18 settembre.
Sarà infatti la Fondazione Merz di Torino a produrre in collaborazione con Liban Art Sacred Catastrophe: Healing Lebanon, di Zena el Khalil, a cura di Beatrice Merz e Janin Maamari: una grande performance di guarigione che durerà ben 40 giorni e avrà luogo al Beit Beirut, edificio simbolo della travagliata storia del Paese.
Workshop, concerti, dibattiti, conferenze si disporranno attorno all’esposizione dei lavori dell’artista, che coinvolgerà tutti e quattro i piani dell’ex Palazzo Barakat con dipinti, sculture, fotografie video e installazioni. Mentre un inchiostro a base di cenere creato dall’artista traccerà segni sulle kefiah usate a mo’ di tela, i concetti di pace, perdono, amore, empatia daranno forma a opere in pietra e ceramica e il vasto allestimento della Foresta della Memoria, sui due livelli intermedi della costruzione, ricorderà le migliaia di vittime del conflitto. A fare da trait-d’union tra le sezioni della mostra, una coinvolgente installazione sonora ascoltabile in ogni ambiente.
Nell’esperienza di Zena el Khalil l’arte si fonde con un rituale di rinascita. Non è la prima volta che l’artista, scrittrice e attivista culturale libanese prova a restituire alla luce luoghi martoriati da violenze o disastri ambientali, ma questo è un caso davvero eccezionale.
Noto come “Yellow House” per il colore delle pietre con cui fu costruito nel 1924, il suggestivo edificio neo-ottomano del Beit Beirut è un documento vivo della guerra che stravolse il Libano dal 1975 al 1990.
Dopo il conflitto, palazzi storici, piazze e monumenti danneggiati furono completamente rasi al suolo per far posto a nuove costruzioni. Speculazione edilizia e desiderio di rimozione concorsero a cancellare la città del passato.
Il vecchio Barakat sorgeva su quella che durante le operazioni belliche fu la green line, la terra di nessuno tra i quartieri a maggioranza musulmana e quelli a maggioranza cristiana. Per la sua posizione strategica e per l’architettura aperta e ariosa divenne la base preferita dei cecchini.
Ridotto a una rovina crivellata di colpi, fu salvato dalla demolizione nel 1997 grazie alle pressioni di architetti, artisti e società civile e trasformato in centro culturale dopo la ristrutturazione che ha lasciato a vista i segni della sua drammatica storia.
Se all’esterno del Beit Beirut l’impressione più potente è data dall’atmosfera decadente dei portici e dai muri bucherellati della facciata, all’interno è possibile sentire il respiro della vita durante la guerra attraverso gli oggetti di vecchi inquilini come il dentista Nagib Kemali, che abbandonò appartamento e studio professionale all’improvviso, lasciandosi dietro i ricordi e i documenti di una vita.
Sarà infatti la Fondazione Merz di Torino a produrre in collaborazione con Liban Art Sacred Catastrophe: Healing Lebanon, di Zena el Khalil, a cura di Beatrice Merz e Janin Maamari: una grande performance di guarigione che durerà ben 40 giorni e avrà luogo al Beit Beirut, edificio simbolo della travagliata storia del Paese.
Workshop, concerti, dibattiti, conferenze si disporranno attorno all’esposizione dei lavori dell’artista, che coinvolgerà tutti e quattro i piani dell’ex Palazzo Barakat con dipinti, sculture, fotografie video e installazioni. Mentre un inchiostro a base di cenere creato dall’artista traccerà segni sulle kefiah usate a mo’ di tela, i concetti di pace, perdono, amore, empatia daranno forma a opere in pietra e ceramica e il vasto allestimento della Foresta della Memoria, sui due livelli intermedi della costruzione, ricorderà le migliaia di vittime del conflitto. A fare da trait-d’union tra le sezioni della mostra, una coinvolgente installazione sonora ascoltabile in ogni ambiente.
Nell’esperienza di Zena el Khalil l’arte si fonde con un rituale di rinascita. Non è la prima volta che l’artista, scrittrice e attivista culturale libanese prova a restituire alla luce luoghi martoriati da violenze o disastri ambientali, ma questo è un caso davvero eccezionale.
Noto come “Yellow House” per il colore delle pietre con cui fu costruito nel 1924, il suggestivo edificio neo-ottomano del Beit Beirut è un documento vivo della guerra che stravolse il Libano dal 1975 al 1990.
Dopo il conflitto, palazzi storici, piazze e monumenti danneggiati furono completamente rasi al suolo per far posto a nuove costruzioni. Speculazione edilizia e desiderio di rimozione concorsero a cancellare la città del passato.
Il vecchio Barakat sorgeva su quella che durante le operazioni belliche fu la green line, la terra di nessuno tra i quartieri a maggioranza musulmana e quelli a maggioranza cristiana. Per la sua posizione strategica e per l’architettura aperta e ariosa divenne la base preferita dei cecchini.
Ridotto a una rovina crivellata di colpi, fu salvato dalla demolizione nel 1997 grazie alle pressioni di architetti, artisti e società civile e trasformato in centro culturale dopo la ristrutturazione che ha lasciato a vista i segni della sua drammatica storia.
Se all’esterno del Beit Beirut l’impressione più potente è data dall’atmosfera decadente dei portici e dai muri bucherellati della facciata, all’interno è possibile sentire il respiro della vita durante la guerra attraverso gli oggetti di vecchi inquilini come il dentista Nagib Kemali, che abbandonò appartamento e studio professionale all’improvviso, lasciandosi dietro i ricordi e i documenti di una vita.
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