Tutti Frutti Habitat
Dal 24 Ottobre 2015 al 01 Novembre 2015
Castano Primo | Milano
Luogo: Villa Rusconi
Indirizzo: via Corio 4
Orari: lun-mart 16,30-19; sab e dom 10-12/16,30-19
Curatori: Fabio Carnaghi
Enti promotori:
- ARK
- Expo in Città
- Regione Lombardia
- Città Metropolitana di Milano
- Città di Castano Primo
- Riserva della Biosfera del Parco del Ticino
Telefono per informazioni: 0331 888033
E-Mail info: info@arkmilano.com
Sito ufficiale: http://www.arkmilano.com
Premio Arte Rugabella 2015 alla sua quinta edizione si inserisce nell’ambito della rassegna Biodiversity per EXPO in CITTÀ.
Tutti Frutti Habitat è una proposta d’indagine, un itinerario culturale che mette in luce il concetto spaziale o ideale in cui inevitabilmente si sviluppa la multiformità antropologico-culturale.
Il termine Tutti Frutti rimanda ad una accezione pop nella cultura occidentale e coglie il carattere miscellaneo che si ispira all’abbondanza gastronomica, come i turbanti carichi di frutta di Carmen Miranda abbinati al costume da baiana reinventato e divenuto iconico. Il sincretismo culturale della Lady in the Tutti Frutti hat diventa di grande interesse nel cogliere questo tema, trasformando un copricapo stravagante e un abito nella rappresentazione di un vero e proprio habitat fluttuante a mosse di danza. È qui letterale il riferimento all’habitat come habitus, ciò di cui ci si avvolge per usanza, moda o iniziativa, oltre che – relativamente - per necessità. In esso si leggono le culture afro-brasiliane in cui le donne sin dai tempi coloniali hanno venduto cibo per le strade di Salvador de Bahia e Rio de Janeiro o hanno praticato da sacerdotesse la religione detta Candomblé.
Tutto questo serve a raccontare, partendo dall’esempio di un archetipo tropicalista, come l’habitat fondato sulla diversità sia uno spazio di esistenza, interpretabile oggettivamente nel senso di spazio geografico- biologico, o soggettivamente, ovvero nel significato di abitare idee, esperienze, condizioni. Proprio come nell’intendere un luogo, concreto o figurato, l’habitat porta con sé un repertorio di caratteri scelti o condizionati, preesistenti o di rinnovamento, ma che direttamente o indirettamente sono necessari alla sopravvivenza di una specie, di una cultura, di un individuo e dei suoi sogni, delle sue visioni, delle sue invenzioni.
Antropico o naturale, progettato o spontaneo, l’habitat è il luogo della vita, nella quale da sempre è necessario sopravvivere, ottimizzando e spendendo risorse perché si possa resistere al tempo. Imprinting, suggestione, attrazione o sopravvivenza sono stimoli che convergono nell’abitabilità o piuttosto nell’abitabilizzazione, ovvero nell’adeguamento delle condizioni alla vivibilità di un contesto, materiale o immateriale esso sia.
In riferimento alla necessità di rendere habitat tutto ciò che viviamo in modo che possa sopravvivere e sopravviverci, un’immagine fondamentale è quella del giardino dell’Eden. Esso è l’habitat perfetto, in cui nulla è necessario per vivere, senza nemmeno prevedere l’allusione alla sopravvivenza. Tutto nel giardino dell’Eden è spontaneo e gratuito, tema che si è conservato nell’iconografia dei paradisi di vacanze o nelle offerte di intrattenimento (anche se in questi casi tutto ha un prezzo). Ma il giardino dell’Eden può presto implodere, perdendo la sua innata idea di habitat, in quanto ha un equilibrio fragile al punto che basta introdurre un cambiamento per non essere più abitabile, almeno dopo il peccato originale. La Convenzione UNESCO del 20 ottobre 2005 sulla promozione della diversità delle espressioni culturali, ribadisce il concetto di preservazione delle più diverse espressioni culturali, siano materiali o immateriali, quali patrimonio della collettività. La stessa Convenzione afferma che “la diversità culturale è una caratteristica inerente all’umanità” e che “la diversità culturale rappresenta un patrimonio comune dell’umanità e che dovrebbe essere valorizzata e salvaguardata a beneficio di tutti, sapendo che la diversità culturale crea un mondo prospero ed eterogeneo in grado di moltiplicare le scelte possibili e di alimentare le capacità e i valori umani”.
Ne deriva il concetto di bio-differenza. L’habitat, per quanto aleatoria possa essere la sua definizione, fissa una sorta di bioresidenzialità che trasmette un corredo di strumenti cognitivi attraverso cui strutturare una visione del mondo, la sua interpretazione ed evoluzione.
Inevitabilmente si individua un terreno identitario, autenticamente irripetibile, basato sul pluralismo e lontano dall’omologazione, risultato di sostrati preesistenti e di nuove trasformazioni. L’habitat è il fondamento dell’essere biodiverso e inscrive background individuali essenziali per la vita. Il comportamento e l’esperienzialità interagiscono con tale matrice inconscia, determinando l’unicità di ogni visione di fronte ad ogni circostanza contingente, punto d’incontro tra finalismo e casualità, tra trascendenza ed immanenza.
Habitat è la casa, ovvero il riparo ed il rifugio, e dunque la città come atto fondativo in uno spazio favorevole, ma si estende all’intimità del sentire, all’interiorità, al corpo, si declina nell’universo virtuale del web, si disegna nella mente, si intuisce nelle forme della natura, si immagina nel futuro e per il futuro, anche se talvolta, solo per poco, ha le sembianze di un paradiso.
Tutti Frutti Habitat è una proposta d’indagine, un itinerario culturale che mette in luce il concetto spaziale o ideale in cui inevitabilmente si sviluppa la multiformità antropologico-culturale.
Il termine Tutti Frutti rimanda ad una accezione pop nella cultura occidentale e coglie il carattere miscellaneo che si ispira all’abbondanza gastronomica, come i turbanti carichi di frutta di Carmen Miranda abbinati al costume da baiana reinventato e divenuto iconico. Il sincretismo culturale della Lady in the Tutti Frutti hat diventa di grande interesse nel cogliere questo tema, trasformando un copricapo stravagante e un abito nella rappresentazione di un vero e proprio habitat fluttuante a mosse di danza. È qui letterale il riferimento all’habitat come habitus, ciò di cui ci si avvolge per usanza, moda o iniziativa, oltre che – relativamente - per necessità. In esso si leggono le culture afro-brasiliane in cui le donne sin dai tempi coloniali hanno venduto cibo per le strade di Salvador de Bahia e Rio de Janeiro o hanno praticato da sacerdotesse la religione detta Candomblé.
Tutto questo serve a raccontare, partendo dall’esempio di un archetipo tropicalista, come l’habitat fondato sulla diversità sia uno spazio di esistenza, interpretabile oggettivamente nel senso di spazio geografico- biologico, o soggettivamente, ovvero nel significato di abitare idee, esperienze, condizioni. Proprio come nell’intendere un luogo, concreto o figurato, l’habitat porta con sé un repertorio di caratteri scelti o condizionati, preesistenti o di rinnovamento, ma che direttamente o indirettamente sono necessari alla sopravvivenza di una specie, di una cultura, di un individuo e dei suoi sogni, delle sue visioni, delle sue invenzioni.
Antropico o naturale, progettato o spontaneo, l’habitat è il luogo della vita, nella quale da sempre è necessario sopravvivere, ottimizzando e spendendo risorse perché si possa resistere al tempo. Imprinting, suggestione, attrazione o sopravvivenza sono stimoli che convergono nell’abitabilità o piuttosto nell’abitabilizzazione, ovvero nell’adeguamento delle condizioni alla vivibilità di un contesto, materiale o immateriale esso sia.
In riferimento alla necessità di rendere habitat tutto ciò che viviamo in modo che possa sopravvivere e sopravviverci, un’immagine fondamentale è quella del giardino dell’Eden. Esso è l’habitat perfetto, in cui nulla è necessario per vivere, senza nemmeno prevedere l’allusione alla sopravvivenza. Tutto nel giardino dell’Eden è spontaneo e gratuito, tema che si è conservato nell’iconografia dei paradisi di vacanze o nelle offerte di intrattenimento (anche se in questi casi tutto ha un prezzo). Ma il giardino dell’Eden può presto implodere, perdendo la sua innata idea di habitat, in quanto ha un equilibrio fragile al punto che basta introdurre un cambiamento per non essere più abitabile, almeno dopo il peccato originale. La Convenzione UNESCO del 20 ottobre 2005 sulla promozione della diversità delle espressioni culturali, ribadisce il concetto di preservazione delle più diverse espressioni culturali, siano materiali o immateriali, quali patrimonio della collettività. La stessa Convenzione afferma che “la diversità culturale è una caratteristica inerente all’umanità” e che “la diversità culturale rappresenta un patrimonio comune dell’umanità e che dovrebbe essere valorizzata e salvaguardata a beneficio di tutti, sapendo che la diversità culturale crea un mondo prospero ed eterogeneo in grado di moltiplicare le scelte possibili e di alimentare le capacità e i valori umani”.
Ne deriva il concetto di bio-differenza. L’habitat, per quanto aleatoria possa essere la sua definizione, fissa una sorta di bioresidenzialità che trasmette un corredo di strumenti cognitivi attraverso cui strutturare una visione del mondo, la sua interpretazione ed evoluzione.
Inevitabilmente si individua un terreno identitario, autenticamente irripetibile, basato sul pluralismo e lontano dall’omologazione, risultato di sostrati preesistenti e di nuove trasformazioni. L’habitat è il fondamento dell’essere biodiverso e inscrive background individuali essenziali per la vita. Il comportamento e l’esperienzialità interagiscono con tale matrice inconscia, determinando l’unicità di ogni visione di fronte ad ogni circostanza contingente, punto d’incontro tra finalismo e casualità, tra trascendenza ed immanenza.
Habitat è la casa, ovvero il riparo ed il rifugio, e dunque la città come atto fondativo in uno spazio favorevole, ma si estende all’intimità del sentire, all’interiorità, al corpo, si declina nell’universo virtuale del web, si disegna nella mente, si intuisce nelle forme della natura, si immagina nel futuro e per il futuro, anche se talvolta, solo per poco, ha le sembianze di un paradiso.
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