Insidierebbero gli equilibri del mondo dell’arte
Jerry Saltz contro il sistema delle mega gallerie
 
										
										 
										
										
																		
																									Gagosian Gallery
															
							L.Sanfelice
27/10/2013
							 Gagosian, Hauser & Wirth, David Zwirner, e Pace. Jerry Saltz non fa prigionieri e dalle colonne del New York Magazine identifica con nome e cognome le mega-gallerie responsabili di un generale impoverimento del panorama artistico attuale. “Con i loro spazi enormi, modelli di business consolidati, staff elefantiaci, reti di pubbliche relazioni, influenza sul mercato e capitalizzazione senza fine, sono una presenza schiacciante” accusa Seltz che lamenta come tutte queste realtà abbiano trasformato la complessa visione personale e le eccentricità dei loro fondatori in corporation.
Contravvenendo al loro ruolo tradizionale, le “megas” “sfruttano il potenziale di artisti che sono stati allevati per anni con cura e attenzione da parte di altre gallerie. E spesso li rovinano”. Saltz sostiene infatti che disporre di spazi sconfinti e budget illimitati spesso può inibire la creatività e l’immaginazione. Non solo. Le mostre presentate dalle “major” non si configurano più come proposte e stimoli aperti al dibattito, ma somigliano piuttosto a retrospettive di genere celebrativo, snaturando ancora una volta la vocazione naturalmente associata al concetto di galleria.
La trasformazione di queste entità genera scompiglio nell’intero sistema. Perchè se è vero che le megas hanno ultimamente supplito alla crisi dei musei proponendo rassegne molto importanti, dall’altra le realtà più contenute, che esercitano il loro vero compito di gallerie, tendono a sentirsi risucchiate e forzate ad un’espansione che segua il passo.
A conferma di questa teoria: la recente apertura a New York di Emmanuel Perrotin che non ha fatto mistero del fatto che a condurlo nell’Upper East Side sia stato soprattutto il timore dalla fuga di artisti dalle sue scuderie. E persino l’ineguagliabile Marian Goodman ha riconosciuto che questo potrebbe essere il momento giusto per aprire a Londra, ma ha badato bene a chiarire che lei “non ha intenzione di conquistare l’universo come alcuni uomini...”
						
						
					Contravvenendo al loro ruolo tradizionale, le “megas” “sfruttano il potenziale di artisti che sono stati allevati per anni con cura e attenzione da parte di altre gallerie. E spesso li rovinano”. Saltz sostiene infatti che disporre di spazi sconfinti e budget illimitati spesso può inibire la creatività e l’immaginazione. Non solo. Le mostre presentate dalle “major” non si configurano più come proposte e stimoli aperti al dibattito, ma somigliano piuttosto a retrospettive di genere celebrativo, snaturando ancora una volta la vocazione naturalmente associata al concetto di galleria.
La trasformazione di queste entità genera scompiglio nell’intero sistema. Perchè se è vero che le megas hanno ultimamente supplito alla crisi dei musei proponendo rassegne molto importanti, dall’altra le realtà più contenute, che esercitano il loro vero compito di gallerie, tendono a sentirsi risucchiate e forzate ad un’espansione che segua il passo.
A conferma di questa teoria: la recente apertura a New York di Emmanuel Perrotin che non ha fatto mistero del fatto che a condurlo nell’Upper East Side sia stato soprattutto il timore dalla fuga di artisti dalle sue scuderie. E persino l’ineguagliabile Marian Goodman ha riconosciuto che questo potrebbe essere il momento giusto per aprire a Londra, ma ha badato bene a chiarire che lei “non ha intenzione di conquistare l’universo come alcuni uomini...”
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