A Roma dal 22 giugno al 31 luglio
Le forme del tempo. Alle Terme di Diocleziano un dialogo tra archeologia e fotografia
Le forme del tempo, Terme di Diocleziano, Installation view | Foto: © Eleonora Cerri Pecorella
Samantha De Martin
21/06/2022
Roma - Riemersa dal buio dei depositi e sottoposta a restauro, la testa frammentaria del cosiddetto Diomede, del II secolo d.C., riconosce nel solco che attraversa le iscrizioni di Arsemia, in Turchia, immortalate da Domingo Milella, le stesse ferite depositate dal tempo su parte del suo volto.
Nella sala accanto, un frammento di rilievo in marmo, risalente al I secolo d.C, spalanca il suo occhio al visitatore come a voler celebrare, o riprodurre, l’occhio del fotografo, mentre un ritratto maschile di provenienza ignota, simile a un enigmatico ciottolo, contempla l’arco in roccia calcarea di Supramonte, in Sardegna, o l’iscrizione, ancora non decodificata, sulla Tomba di Re Mida, in Turchia, catturata dall’obiettivo di Domingo Milella.
Alle Terme di Diocleziano una nuova archeologia, solleticata dal dialogo tra archeologia del paesaggio e archeologia del linguaggio, prende forma in un percorso espositivo immaginato come una conversazione tra immagini e spazio archeologico, dove reperti mai visti recuperano nuova vita partecipando a questa profonda ricerca sull’atto stesso del guardare.
Simile a una scintilla di archeologia del futuro, o a un ragionamento sul tempo plasmabile, la mostra dal titolo Le forme del tempo, che dal 22 giugno al 31 luglio presenta 12 fotografie di Fabio Barile e Domingo Milella in un inedito dialogo con gli spazi archeologici delle Terme di Diocleziano a Roma, è un viaggio nel tempo, geologico, archeologico e presente, a cura di Alessandro Dandini de Sylva.
Le forme del tempo, Terme di Diocleziano, Installation view | Foto: © Eleonora Cerri Pecorella
Dopo i primi due capitoli espositivi al Centro Arti Visive Pescheria e nell’antica Sinagoga di Pesaro, Le forme del tempo cerca ora un nuovo legame con le Grandi Aule delle terme romane, nel complesso monumentale voluto dall’imperatore Massimino tra il III e il IV secolo, abbandonato per mille anni prima di essere trasformato da Michelangelo in chiesa e certosa nel Cinquecento.
Qui le archeologie del paesaggio di Fabio Barile e quelle del linguaggio di Domingo Milella si sovrappongono alle schegge del tempo, testimonianze mai mostrate al pubblico, riportate alla luce dai magazzini del Museo Nazionale Romano. E qui il percorso, come in pochi altri luoghi, assorbe le vibrazioni e le stratificazioni del passato di questo spazio non convenzionale, lontano dai neutrali spazi bianchi dell’arte contemporanea.
“Quando abbiamo scelto il nome della mostra - spiega Fabio Barili - abbiamo cambiato il titolo del libro di George Kubler, La forma del tempo in Le forme del Tempo. La declinazione plurale scolpisce un’idea mentale e fisica del tempo molto precisa, ovvero che il tempo non sia una cosa uniforme".
Se Fabio Barile va a caccia di crepe nel tempo totale, Milella fruga nel tempo reale, ma entrambi condividono la comune ricerca sull’uomo. Dov’è finito? Sta forse diventando fotografo e immagine senza accorgersene?
Le forme del tempo, Terme di Diocleziano, Installation view | Foto: © Eleonora Cerri Pecorella
Le immagini di entrambi mostrano storie di eventi che generano altri eventi, storie di sconfitte e successi, stasi e cambiamenti.
“Le opere di Fabio Barile e Domingo Milella sono fotografie che riflettono il tempo - spiega il curatore Alessandro Dandini de Sylva -. Se Barile lavora sulla geologia con immagini che mostrano forme in perenne evoluzione, fin dal tempo profondo del mondo e della geologia, i lavori di Milella affondano le loro radici nella pietra dell'arcaico, del primitivo nel presente in un solo sguardo, nelle tracce dell’uomo sul paesaggio”.
Il discorso sull’antico è evocato dal dialogo tra le immagini in mostra - dalle Piramidi di Giza alla Tomba di Re Mida in Frigia, dall’altopiano di Campo Imperatore alla Gola di Gorropu in Supramonte o ancora alla vetta più alta della Mesopotamia, a Nemrut Dagi - realizzate dai due artisti per avvicinare geologie mute e pietre parlanti alla ricerca di un’archeologia comune. Accanto ai lavori fotografici, Le forme del tempo presenta una selezione di reperti archeologici, selezionati con il direttore del Museo Nazionale Romano Stéphane Verger, con l’intento di creare accostamenti visivi e semantici inaspettati tra le fotografie, le Grandi Aule e i frammenti di tempo riportati alla luce dai magazzini del museo.
Fabio Barile, Arco in roccia calcarea, Supramonte, Italia, 2019
Nei loro viaggi Barili e Milella si sono portati uno zaino di 30 chili con l'attrezzatura. I loro scatti, realizzati rigorosamente in analogico, sono il risultato di acqua, argento, soffietto, lastre, panno nero, ma soprattutto attesa e fiducia nel mezzo, in quel fluire del tempo che è il filo conduttore dell’intera mostra.
“La particolarità del nostro lavoro è il fatto di non riuscire a vedere subito il risultato dell’immagine che deve essere processata nell’acqua dei fiumi. Non vedere subito quello che hai fatto è un atto di abbandono al mezzo e di fiducia in esso” confessano.
Quello che affascina di queste immagini non è tanto il luogo che rappresentano quanto il ragionamento che attivano nello spettatore invitandolo a porsi le domande più antiche del mondo - chi siamo, cosa siamo? - utilizzando l’arte come strumento di ricerca sull’origine e sul destino delle cose. Non sempre queste domande trovano risposte, come ben sottolinea l’ultima immagine che chiude la mostra, dove lo studio di Fabio Barile sul campo magnetico terrestre mostra tutti i limiti dell’uomo nel comprendere i fenomeni della terra.
Domingo Milella, Arsemia, Turchia, 2013
Leggi anche:
• Ai Weiwei a Roma: antico e contemporaneo a confronto tra vetro, lego, ceramica
Nella sala accanto, un frammento di rilievo in marmo, risalente al I secolo d.C, spalanca il suo occhio al visitatore come a voler celebrare, o riprodurre, l’occhio del fotografo, mentre un ritratto maschile di provenienza ignota, simile a un enigmatico ciottolo, contempla l’arco in roccia calcarea di Supramonte, in Sardegna, o l’iscrizione, ancora non decodificata, sulla Tomba di Re Mida, in Turchia, catturata dall’obiettivo di Domingo Milella.
Alle Terme di Diocleziano una nuova archeologia, solleticata dal dialogo tra archeologia del paesaggio e archeologia del linguaggio, prende forma in un percorso espositivo immaginato come una conversazione tra immagini e spazio archeologico, dove reperti mai visti recuperano nuova vita partecipando a questa profonda ricerca sull’atto stesso del guardare.
Simile a una scintilla di archeologia del futuro, o a un ragionamento sul tempo plasmabile, la mostra dal titolo Le forme del tempo, che dal 22 giugno al 31 luglio presenta 12 fotografie di Fabio Barile e Domingo Milella in un inedito dialogo con gli spazi archeologici delle Terme di Diocleziano a Roma, è un viaggio nel tempo, geologico, archeologico e presente, a cura di Alessandro Dandini de Sylva.
Le forme del tempo, Terme di Diocleziano, Installation view | Foto: © Eleonora Cerri Pecorella
Dopo i primi due capitoli espositivi al Centro Arti Visive Pescheria e nell’antica Sinagoga di Pesaro, Le forme del tempo cerca ora un nuovo legame con le Grandi Aule delle terme romane, nel complesso monumentale voluto dall’imperatore Massimino tra il III e il IV secolo, abbandonato per mille anni prima di essere trasformato da Michelangelo in chiesa e certosa nel Cinquecento.
Qui le archeologie del paesaggio di Fabio Barile e quelle del linguaggio di Domingo Milella si sovrappongono alle schegge del tempo, testimonianze mai mostrate al pubblico, riportate alla luce dai magazzini del Museo Nazionale Romano. E qui il percorso, come in pochi altri luoghi, assorbe le vibrazioni e le stratificazioni del passato di questo spazio non convenzionale, lontano dai neutrali spazi bianchi dell’arte contemporanea.
“Quando abbiamo scelto il nome della mostra - spiega Fabio Barili - abbiamo cambiato il titolo del libro di George Kubler, La forma del tempo in Le forme del Tempo. La declinazione plurale scolpisce un’idea mentale e fisica del tempo molto precisa, ovvero che il tempo non sia una cosa uniforme".
Se Fabio Barile va a caccia di crepe nel tempo totale, Milella fruga nel tempo reale, ma entrambi condividono la comune ricerca sull’uomo. Dov’è finito? Sta forse diventando fotografo e immagine senza accorgersene?
Le forme del tempo, Terme di Diocleziano, Installation view | Foto: © Eleonora Cerri Pecorella
Le immagini di entrambi mostrano storie di eventi che generano altri eventi, storie di sconfitte e successi, stasi e cambiamenti.
“Le opere di Fabio Barile e Domingo Milella sono fotografie che riflettono il tempo - spiega il curatore Alessandro Dandini de Sylva -. Se Barile lavora sulla geologia con immagini che mostrano forme in perenne evoluzione, fin dal tempo profondo del mondo e della geologia, i lavori di Milella affondano le loro radici nella pietra dell'arcaico, del primitivo nel presente in un solo sguardo, nelle tracce dell’uomo sul paesaggio”.
Il discorso sull’antico è evocato dal dialogo tra le immagini in mostra - dalle Piramidi di Giza alla Tomba di Re Mida in Frigia, dall’altopiano di Campo Imperatore alla Gola di Gorropu in Supramonte o ancora alla vetta più alta della Mesopotamia, a Nemrut Dagi - realizzate dai due artisti per avvicinare geologie mute e pietre parlanti alla ricerca di un’archeologia comune. Accanto ai lavori fotografici, Le forme del tempo presenta una selezione di reperti archeologici, selezionati con il direttore del Museo Nazionale Romano Stéphane Verger, con l’intento di creare accostamenti visivi e semantici inaspettati tra le fotografie, le Grandi Aule e i frammenti di tempo riportati alla luce dai magazzini del museo.
Fabio Barile, Arco in roccia calcarea, Supramonte, Italia, 2019
Nei loro viaggi Barili e Milella si sono portati uno zaino di 30 chili con l'attrezzatura. I loro scatti, realizzati rigorosamente in analogico, sono il risultato di acqua, argento, soffietto, lastre, panno nero, ma soprattutto attesa e fiducia nel mezzo, in quel fluire del tempo che è il filo conduttore dell’intera mostra.
“La particolarità del nostro lavoro è il fatto di non riuscire a vedere subito il risultato dell’immagine che deve essere processata nell’acqua dei fiumi. Non vedere subito quello che hai fatto è un atto di abbandono al mezzo e di fiducia in esso” confessano.
Quello che affascina di queste immagini non è tanto il luogo che rappresentano quanto il ragionamento che attivano nello spettatore invitandolo a porsi le domande più antiche del mondo - chi siamo, cosa siamo? - utilizzando l’arte come strumento di ricerca sull’origine e sul destino delle cose. Non sempre queste domande trovano risposte, come ben sottolinea l’ultima immagine che chiude la mostra, dove lo studio di Fabio Barile sul campo magnetico terrestre mostra tutti i limiti dell’uomo nel comprendere i fenomeni della terra.
Domingo Milella, Arsemia, Turchia, 2013
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