Le opere in esposizione

A street with maps di Miwa Yanagi
 

22/02/2002

Nel salone dell’Istituto sono presentati due enormi pannelli costituiti da quattro lastre ciascuno. La prima fotografia è proprio quella che dà il titolo alla mostra. In “Eternal city” la Yanagi ha sistemato in una perfetta messinscena undici ragazze in divisa, tutte intente ad osservare quello che sembra essere il progetto di una città. Sopra di loro un soffitto circolare luminoso che rimanda alla stereotipa immagine del disco volante: una scala che evidentemente porta al piano superiore non fa che aumentare questa sensazione di realtà futuribile. Ai lati, grazie all’obiettivo grandangolare si vedono due ali prospettiche speculari: i passaggi aperti con tapis-roulant tipici di una stazione. L’azzurro delle divise è in forte contrasto sia con il bianco splendente del modellino della città, sia con il grigio della struttura architettonica in cui la scena è ambientata. L’altro grande pannello è intitolato “A street with maps”: una galleria buia con mappe retroilluminate davanti alle quali sono gruppi di ragazze in divisa di color chiaro. Tutto ricorda le gallerie di mappe rinascimentali, un tempo unici luoghi dove si entrava in contatto con la geografia di luoghi lontani come l’Oriente. Anche qui, come nella prima fotografia, tempi diversi coesistono nello stesso spazio. Sulla sinistra l’immagine delle ragazze è riflessa nel vetro che le vede affiancate ad immagini di celebri statue della tradizione culturale occidentale. Tra queste sono perfettamente leggibili due iconografie di Antonio Canova: la “Paolina Bonaparte” di Galleria Borghese e “Amore e Psiche” del Louvre. Una particolare consonanza figurale lega l’unica ragazza che riflessa nel vetro e la Paolina Borghese: entrambe portano una mano dietro la testa. La scelta della scultura senza tempo di Canova, che richiama l’eternità classica, non può essere un caso all’interno della poetica di Miwa Yanagi. Nonostante la modernità delle immagini presentate dalla Yanagi, la loro composizione si fonda in maniera inequivocabile sulla prospettiva quattrocentesca italiana: è come se Piero della Francesca, Leon Battista Alberti e l’autore della “Città ideale” di Urbino, siano stati catapultati nel nostro tempo, in Giappone e con una macchina fotografica in mano.