Un sublime ritratto di Lucio Spinozzi firmato da Alan Jones
L'ARCHEOLOGIA DEL CAOS: LUCIO SPINOZZI, PICTOR NATUS VENETIIS
Lucio Spinozzi,
Bocca di Porto, 2007, Tecnica mistica
su tela gessata
, 50 × 70 cm | Courtesy Lucio Spinozzi
Alan Jones
02/07/2023
Venezia - La Lettura - supplemento de Il Corriere della Sera dedicato alla cultura e a i libri - ha dedicato la propria copertina a un grande artista veneziano: Lucio Spinozzi (Venezia, 1957). L'occasione è preziosa per la Redazione di ARTE.it, Lucio Spinozzi è un caro amico a cui vogliamo bene. Per questo abbiamo deciso di ripubblicare l'introduzione che il grande critico Alan Jones gli dedicò nel 2004 in occasione di una sua mostra monografica.
La linea di un orizzonte ideale traversa la pittura di Lucio Spinozzi, quell'orizzonte piatto della Laguna, spesso incontrato dai maestri veneziani, una linea d'equilibrio sulla quale Lucio Spinozzi basa le sue prospettive fantasiose e visioni allucinatorie, quasi come se la Laguna della sua città natale fosse più di un naturale ecosistema acquatico, diviene una fonte vivente del processo immaginativo stesso.
Lucio Spinozzi descrive la sua cronologia d'artista come un percorso diagonale. All'età di undici anni e mezzo comincia a lavorare dopo scuola, prima come assistente per un macellaio e poi per un fiorista, abbandonando la scuola dell’obbligo un anno dopo per iniziare l’apprendistato da un orefice: esperienza destinata a instillare un durevole amore per la lavorazione dei metalli preziosi, che porterà a una persistente fascinazione per gli aspetti alchemici dell’arte.
I suoi studi però continueranno, sotto la forma di corsi serali dai quali ha cominciato ad approfondire la sua conoscenza dell'arte, allargando nello stesso tempo i suoi studi di lingue straniere, l'inglese, francese, spagnolo, e tedesco come linee di comunicazione con il mondo. "I miei genitori avevano una vita strana e semplice, con valori profondi. Mia madre era una sarta e incoraggiava le mie ambizioni creative. I miei genitori erano l'influenza più importante nella mia vita. Continuavo con le mie 'interrogazioni' in filosofia, religione, poesia, leggendo più saggi che narrativa. A quattordici anni ho scoperto l'acqua calda e nello stesso tempo l'I-King di Lao Tze, che mi offrivano un entusiasmo per il pensiero cinese".
Il destino voleva che suo nonno adottivo Mario Bona fosse stato un ingegnoso disegnatore, tenuto in alta stima nel quartiere dove lui guadagnava la vita come artista con la matita e carboncino. Da allora in poi il disegnare diventa uno degli aspetti centrali della pratica artistica di Lucio Spinozzi. Avendo già cominciato a modellare figurine per conto proprio, a quindici anni si presentò in una gioielleria a Rialto dove fu assunto come apprendista e apprese a lavorare con ogni tipo di metallo. Durante questo stesso periodo un artista anziano lo introdusse a un'arte storicamente legata a quella dell'orefice, l'incisione su zinco, rame e altri metalli. Recatosi a Londra, nel 1976 lavora in una prestigiosa gioielleria di Oxford Circus mentre frequenta il nuovo genere musicale punk, avvicinandosi nello stesso tempo al radicalismo politico dell’epoca. Londra gli offrì inoltre l'opportunità di trovarsi ancora faccia a faccia con il patrimonio lagunare che aveva lasciato lontano dietro di sé: con frequenti visite al British Museum studiò le grandi tele dei maestri veneziani.
“Ciò che specialmente mi affascinava in Canaletto e Guardi era il loro modo di miniare il particolare invisibile, la persistenza del dettaglio come se il Canal Grande fosse contenuto in miniatura nella vasta espansione di tela. Era quest'approccio che più risvegliava il mio entusiasmo per la pittura veneziana e l'ho ritrovato nell'ossessività di Salvador Dalí”.
Disincanto. Con la prevedibilità borghese che faceva parte inevitabilmente dello stile di vita di un'artista convenzionale, spingeva Lucio Spinozzi, verso un lungo periodo di viaggi che lo portavano attraverso l'Europa e fino all'India.
“Più che la posa pseudo-aristocratica dell'artista di successo io preferivo l'esempio del mio nonno adottivo: un artista del popolo veneziano che mi dava più verità di Balthus”.
Tornato a casa, nel 1977 s'iscrive alla Scuola Internazionale di Grafica a Venezia.
“Fin dall'inizio il disegnare è stato di una fondamentale importanza per me; dava risposte a domande e io lo usavo come una specie d'oracolo. La malinconia è una forma di follia curabile solo tramite il disegnare. L'unica forma di terapia che ho mai praticato in vita mia è l'alchimia del disegno”.
Quanto ai vecchi maestri della scuola veneta che arricchiscono ogni chiesa e museo della città, come tutti gli aspiranti Lucio Spinozzi ha dovuto subire un lungo cammino per impadronirsi di una coscienza del suo patrimonio veneziano.
“Da adolescente non distinguevo quasi l'opera di Tiziano da quella di Tintoretto, un Bellini da un Giorgione, per me loro rappresentavano monumenti, parte dell'antico sapore che mi circondava, nell'acqua, nei palazzi e negli interni, e io sentivo un bisogno per la bellezza di Venezia, di un nutrimento spirituale. Tutto questo era collegato alla suggestività di Venezia, i suoi ritmi erano ancora intatti, come la sua vita popolare nel cortile che oggi sosta nel passato”.
Mentre andava al Liceo Artistico cominciò a frequentare la Collezione Peggy Guggenheim. Attratto dal lavoro di Salvador Dalí, Tancredi, Marino Marini, allo stesso tempo scopriva la presenza di un grande artista vivente a Venezia, Emilio Vedova. Dopo solo due anni di Liceo Artistico, nel 1982 s'iscrive all'Accademia di Belle Arti e comincia a studiare la pittura presso lo stesso Vedova. Insegnava inoltre disegno e scultura. Nella persona di Vedova, Lucio Spinozzi trova la figura del saggio che aveva lungamente cercato, incontrando allo stesso tempo il ruolo pubblico dell'artista in azione, che più tardi ritroverà in James Lee Byars.
“Il lavoro di Vedova comunicava una straordinaria intensità: l'energia del gesto, la comunicazione diretta del segno, la rapidità di un lampo. Egli diceva di discendere dal Tintoretto, e più tardi il restauratore Gigi Savio mi raccontò che ingrandendo una piccola area di un'opera del Tintoretto sulla quale lavorava vide Vedova. Una delle cose di cui Vedova ci parlava era la percezione della profondità, della necessità di far crescere le antenne, di coltivare il radar interiore. Il mio programma di de-formalizzazione cominciava lì, la mia investigazione delle forme naturali. Vedova mi dava lo stimolo per andare avanti”.
James Lee Byars, durante la sua residenza a Venezia, diventò un'altra figura importante nell'ambito creativo di Lucio Spinozzi. L'incontro ebbe luogo nel 1984 nel laboratorio di un'oreficeria in Campo San Barnaba dove l'artista americano stava fabbricando degli oggetti. Byars, uno del grandi artisti del suo tempo, ricorreva a procedimenti alchemici di sua invenzione in modo da ispirare un alto grado di sensibilità ai suoi oggetti, avvenimenti e alla sua vita d'ogni giorno. Era sull’opera di quest'artista che Lucio Spinozzi scriverà la sua tesi di laurea all'Accademia di Belle Arti.
Il lavoro di Lucio Spinozzi non è facilmente divisibile in categorie convenzionali come pittura e scultura. Certe opere sembrano vibrare sopra il confine tra oggetto e linguaggio; altre giocano con la scala, una questione centrale nel regno del gioiello e nelle implicazioni concettuali di questa forma d’arte. È interessante che l'artigianato orafo rappresenti il primo contatto professionale di Lucio Spinozzi con la pratica dell’arte. È lo stesso percorso di uno dei pionieri dell’Arte Concettuale, il newyorkese Les Levine, che ha svolto un simile apprendistato a Dublino. L'essenziale di un gioiello è la sua portabilità, una qualità che lo rende simile all’arte concettuale come mezzo di comunicazione. L'oreficeria è una delle arti più antiche dell'umanità; introduce la questione del micro e del macro, il crogiuolo, o di ordine e di caos.
Questa dimensione, assieme all'aspetto alchemico della metallurgia, è centrale nel pensiero artistico di Lucio Spinozzi. Il senso di scala che lui identifica nell'opera di Canaletto e Guardi è legato alla resistenza del contrasto tra il dettaglio ossessivo e lo spazio infinito che si scopre nel lavoro del maestro d'oreficeria. Lo stesso è vero in Gustave Moreau, dove le sue piccole tele sono inzaccherate di gioielli.
Il gioiello fatto a mano occupa la dimensione dell'eterno e Lucio Spinozzi gioca con questo meccanismo di scala in ognuna delle sue opere, che spesso possono prendere forma in miniatura. Les objets flottent dans ma chambre, trop grands et trop petits, scriveva Jean Cocteau della pittura di Picasso. Chiunque abbia visto le enorrni sculture di Salvador Dalí esposte in Place Vendome a Parigi potrebbe concordare la definizione di scultura come gioiello ingrandito.
Se Lucio Spinozzi fosse un personaggio di un romanzo, sarebbe un monaco russo, o uno spagnolo picaresco, qualcuno da Joseph Conrad oppure il Gulliver di Jonathan Swift portato sullo schermo da Ingmar Bergman, con un dramma pieno di veemenza e sete per il fasto sfarzo e cerimoniosità di un'altra epoca. Bisogna immaginare un Tiziano Tibetano. Un'inveterata disposizione per il gioco di parole, come una forma di scultura linguistica, l'ha portato a osare di fondare un derisorio movimento d'arte tutto suo, il "Futilismo", nome che avrebbe fatto sorridere l'acerbo Samuel Beckett. Derivando da un atteggiamento ostinatamente situazionista, il movimento di Lucio Spinozzi non era solo un jeu de parole sul più famoso movimento italiano, il Futurismo, ma anche un tentativo di rilevare il dilemma insolubile e perenne in cui artisti giovani e vecchi si trovano.
Anche se lontano dall'essere un Duchampiano dottrinario, Lucio Spinozzi è tuttavia riuscito a oscurare la frontiera tra vita e arte, proprio come ha consigliato l'inventore del Readymade. Il suo domicilio e studio a Mestre sembrano confondersi uno con l'altro, arrivando a una curiosa simbiosi tra l'organico e il minerale. Una scala o un corridoio potrebbero contenere o essere contenuti in quadri, dipinti direttamente sui muri ed eventualmente strappati via con procedimenti conosciuti da lui solo; lavori in ogni fase d'assembramento o di disintegrazione deliberata si spargono nel ballatoio come nella cantina di un mago.
Nell'officina, dipinti coabitano con la voce della scultura. La cucina sembra una vetrina eteroclita, che sta per diventare a sua volta un gioco linguistico, mentre il guardaroba sembra il demanio dove la Venere di Willendorf tiene compagnia con William Blake vigilando su dei rottami galleggianti, a ogni apparenza salvati dal Bucintoro stesso. Fantasmi di sirene e divinità marittime distese contemplano quest'accumulazione soggettiva di bric-à-brac post-d'Annunziano. Manichini senza testa e machines cèlibataires derelitte montano la guardia del patio senza ombra.
"Questa muffa sta venendo bene".
Lucio Spinozzi mostra una tela che ha subito un processo diligentemente negletto, che ricorda il "triste Readymade" di Duchamp; poi si rivolge a una macchina d'ignota funzione:"Questo è qualcosa che ho sempre voluto restaurare".
Muffa, restauro: parole chiave nel vocabolario di Lucio Spinozzi.
L'artista invecchia le sue opere come altri invecchiano il vino o il formaggio in una caverna, queste opere funzionano come orologi organici, per autenticare: per misurare il passaggio del tempo. Il meccanismo di negletto sfida il restauro, anche nel senso politico della parola, vi è ripristino tradizionale di una facciata appannata dalle ingiurie degli anni; Leonardo da Vinci si sarebbe potuto divertire nella ricerca di cadavres exquises dipinti dalla mano della natura. In breve, è un provocante atteggiamento di un Dandy davanti alla temporalità.
In effetti, la muffa lavora con l'infinitesimale lentezza consonante a ciò che traccia il fatale orologio, la decomposizione d'ogni cosa nel tempo; mentre il restauro evoca la missione dell'artista di "restaurare ciò che è decaduto" (Riccardo St. Victor). E' la ricerca di una metafora adeguata per incorporare qualche cosa che è perduto, perduto per sempre, ma non dimenticato. L’atelier di Lucio Spinozzi è dunque un laboratorio dedicato a esperimenti sulla temporaneità, l'archeologia del caos.
Questo processo di lavoro sembra simile a quello del grande scrittore Predrag Matvejević - il cui ultimo libro è intitolato L'altra Venezia. In un'intervista con VeNews, l'autore bosniaco ha descritto il suo punto di partenza per un altro libro, Breviario Mediterreneo.
Come si può creare un nuovo approccio a questo luogo che è stato descritto tante volte? Lo stesso è vero per Venezia la città più fotografata nel mondo e la più dipinta, particolarmente dai suoi maestri. Ho tentato di dare voce al 'non detto', e poco a poco ho scoperto i temi. Ad esempio il rapporto tra ruggine e patine in un posto così umido, gli oggetti diventano rapidamente avviluppati da una patina che li protegge, o da una ruggine che li distrugge, una ruggine di colore brillante, come nei quadri di Tiziano. Le piante crescono nelle fessure dei muri... come vediamo ugualmente nelle opere di Tintoretto e Tiepolo”.
A chiunque conosca il lavoro di Lucio Spinozzi, questa "ruggine di colore brillante" è facilmente riconoscibile.
La laguna fertile bacino acquatico e base dell'immaginazione. Qualche anno fa, l'intimo rapporto di Lucio Spinozzi con la sua città natale l'ha portato in una vicenda degna delle Memorie di Casanova o di Da ponte, in cui ha rischiato la vita con un gruppo d'amici in una collisione notturna. Una serie di piccoli dipinti hanno presagito l'incidente; erano descritti da Daniel Rotbart in NY Arts Magazine in occasione di una mostra a New York nel 2001: "sono caotici, forti espressioni del mare, riflettono le forme amorfe" il peso, la trasparenza e l’opacità dell'acqua". ll "Caos" di Giuseppe Battista viene in mente: era terra, era mar…
Roma dorata; Venezia argentata. La qualità d'argento delle vedute notturne di Tiziano, umide e illuminate da una torcia (ll Martirio di San Lorenzo) si ritrova ancor oggi, anche se le torce sono le lampade elettriche così care ai Futuristi. Solo Venezia avrebbe potuto dare questa esatta contaminazione d'ingredienti per la formazione di una sensibilità come quella di Lucio Spinozzi. La luce da torcia non si riflette più su elmo e corazza però si può immaginare l'artista portare ambedue con una bravura da corsaro.
"Arriviamo sempre troppo tardi all'arte: quando l'importante è vivere l'arte".
Alan Jones
Venezia, Maggio 2004
BIOGRAFIA
Lucio Spinozzi è nato a Venezia nel 1957 e si è laureato all'Accademia di Belle Arti nel 1988, con una tesi su James Lee Byars, con cui ha partecipato nel 1989 alla mostra "Les Magiciens de la Terre" al Centre Georges Pompidou di Parigi. Riconosciuto per la sua attività orafa, la sua pittura, scultura e i suoi interventi avanguardisti, ha esposto a Venezia, Mestre, Milano, Roma, New York, San Francisco.
La linea di un orizzonte ideale traversa la pittura di Lucio Spinozzi, quell'orizzonte piatto della Laguna, spesso incontrato dai maestri veneziani, una linea d'equilibrio sulla quale Lucio Spinozzi basa le sue prospettive fantasiose e visioni allucinatorie, quasi come se la Laguna della sua città natale fosse più di un naturale ecosistema acquatico, diviene una fonte vivente del processo immaginativo stesso.
Lucio Spinozzi descrive la sua cronologia d'artista come un percorso diagonale. All'età di undici anni e mezzo comincia a lavorare dopo scuola, prima come assistente per un macellaio e poi per un fiorista, abbandonando la scuola dell’obbligo un anno dopo per iniziare l’apprendistato da un orefice: esperienza destinata a instillare un durevole amore per la lavorazione dei metalli preziosi, che porterà a una persistente fascinazione per gli aspetti alchemici dell’arte.
I suoi studi però continueranno, sotto la forma di corsi serali dai quali ha cominciato ad approfondire la sua conoscenza dell'arte, allargando nello stesso tempo i suoi studi di lingue straniere, l'inglese, francese, spagnolo, e tedesco come linee di comunicazione con il mondo. "I miei genitori avevano una vita strana e semplice, con valori profondi. Mia madre era una sarta e incoraggiava le mie ambizioni creative. I miei genitori erano l'influenza più importante nella mia vita. Continuavo con le mie 'interrogazioni' in filosofia, religione, poesia, leggendo più saggi che narrativa. A quattordici anni ho scoperto l'acqua calda e nello stesso tempo l'I-King di Lao Tze, che mi offrivano un entusiasmo per il pensiero cinese".
Il destino voleva che suo nonno adottivo Mario Bona fosse stato un ingegnoso disegnatore, tenuto in alta stima nel quartiere dove lui guadagnava la vita come artista con la matita e carboncino. Da allora in poi il disegnare diventa uno degli aspetti centrali della pratica artistica di Lucio Spinozzi. Avendo già cominciato a modellare figurine per conto proprio, a quindici anni si presentò in una gioielleria a Rialto dove fu assunto come apprendista e apprese a lavorare con ogni tipo di metallo. Durante questo stesso periodo un artista anziano lo introdusse a un'arte storicamente legata a quella dell'orefice, l'incisione su zinco, rame e altri metalli. Recatosi a Londra, nel 1976 lavora in una prestigiosa gioielleria di Oxford Circus mentre frequenta il nuovo genere musicale punk, avvicinandosi nello stesso tempo al radicalismo politico dell’epoca. Londra gli offrì inoltre l'opportunità di trovarsi ancora faccia a faccia con il patrimonio lagunare che aveva lasciato lontano dietro di sé: con frequenti visite al British Museum studiò le grandi tele dei maestri veneziani.
“Ciò che specialmente mi affascinava in Canaletto e Guardi era il loro modo di miniare il particolare invisibile, la persistenza del dettaglio come se il Canal Grande fosse contenuto in miniatura nella vasta espansione di tela. Era quest'approccio che più risvegliava il mio entusiasmo per la pittura veneziana e l'ho ritrovato nell'ossessività di Salvador Dalí”.
Disincanto. Con la prevedibilità borghese che faceva parte inevitabilmente dello stile di vita di un'artista convenzionale, spingeva Lucio Spinozzi, verso un lungo periodo di viaggi che lo portavano attraverso l'Europa e fino all'India.
“Più che la posa pseudo-aristocratica dell'artista di successo io preferivo l'esempio del mio nonno adottivo: un artista del popolo veneziano che mi dava più verità di Balthus”.
Tornato a casa, nel 1977 s'iscrive alla Scuola Internazionale di Grafica a Venezia.
“Fin dall'inizio il disegnare è stato di una fondamentale importanza per me; dava risposte a domande e io lo usavo come una specie d'oracolo. La malinconia è una forma di follia curabile solo tramite il disegnare. L'unica forma di terapia che ho mai praticato in vita mia è l'alchimia del disegno”.
Quanto ai vecchi maestri della scuola veneta che arricchiscono ogni chiesa e museo della città, come tutti gli aspiranti Lucio Spinozzi ha dovuto subire un lungo cammino per impadronirsi di una coscienza del suo patrimonio veneziano.
“Da adolescente non distinguevo quasi l'opera di Tiziano da quella di Tintoretto, un Bellini da un Giorgione, per me loro rappresentavano monumenti, parte dell'antico sapore che mi circondava, nell'acqua, nei palazzi e negli interni, e io sentivo un bisogno per la bellezza di Venezia, di un nutrimento spirituale. Tutto questo era collegato alla suggestività di Venezia, i suoi ritmi erano ancora intatti, come la sua vita popolare nel cortile che oggi sosta nel passato”.
Mentre andava al Liceo Artistico cominciò a frequentare la Collezione Peggy Guggenheim. Attratto dal lavoro di Salvador Dalí, Tancredi, Marino Marini, allo stesso tempo scopriva la presenza di un grande artista vivente a Venezia, Emilio Vedova. Dopo solo due anni di Liceo Artistico, nel 1982 s'iscrive all'Accademia di Belle Arti e comincia a studiare la pittura presso lo stesso Vedova. Insegnava inoltre disegno e scultura. Nella persona di Vedova, Lucio Spinozzi trova la figura del saggio che aveva lungamente cercato, incontrando allo stesso tempo il ruolo pubblico dell'artista in azione, che più tardi ritroverà in James Lee Byars.
“Il lavoro di Vedova comunicava una straordinaria intensità: l'energia del gesto, la comunicazione diretta del segno, la rapidità di un lampo. Egli diceva di discendere dal Tintoretto, e più tardi il restauratore Gigi Savio mi raccontò che ingrandendo una piccola area di un'opera del Tintoretto sulla quale lavorava vide Vedova. Una delle cose di cui Vedova ci parlava era la percezione della profondità, della necessità di far crescere le antenne, di coltivare il radar interiore. Il mio programma di de-formalizzazione cominciava lì, la mia investigazione delle forme naturali. Vedova mi dava lo stimolo per andare avanti”.
James Lee Byars, durante la sua residenza a Venezia, diventò un'altra figura importante nell'ambito creativo di Lucio Spinozzi. L'incontro ebbe luogo nel 1984 nel laboratorio di un'oreficeria in Campo San Barnaba dove l'artista americano stava fabbricando degli oggetti. Byars, uno del grandi artisti del suo tempo, ricorreva a procedimenti alchemici di sua invenzione in modo da ispirare un alto grado di sensibilità ai suoi oggetti, avvenimenti e alla sua vita d'ogni giorno. Era sull’opera di quest'artista che Lucio Spinozzi scriverà la sua tesi di laurea all'Accademia di Belle Arti.
Il lavoro di Lucio Spinozzi non è facilmente divisibile in categorie convenzionali come pittura e scultura. Certe opere sembrano vibrare sopra il confine tra oggetto e linguaggio; altre giocano con la scala, una questione centrale nel regno del gioiello e nelle implicazioni concettuali di questa forma d’arte. È interessante che l'artigianato orafo rappresenti il primo contatto professionale di Lucio Spinozzi con la pratica dell’arte. È lo stesso percorso di uno dei pionieri dell’Arte Concettuale, il newyorkese Les Levine, che ha svolto un simile apprendistato a Dublino. L'essenziale di un gioiello è la sua portabilità, una qualità che lo rende simile all’arte concettuale come mezzo di comunicazione. L'oreficeria è una delle arti più antiche dell'umanità; introduce la questione del micro e del macro, il crogiuolo, o di ordine e di caos.
Questa dimensione, assieme all'aspetto alchemico della metallurgia, è centrale nel pensiero artistico di Lucio Spinozzi. Il senso di scala che lui identifica nell'opera di Canaletto e Guardi è legato alla resistenza del contrasto tra il dettaglio ossessivo e lo spazio infinito che si scopre nel lavoro del maestro d'oreficeria. Lo stesso è vero in Gustave Moreau, dove le sue piccole tele sono inzaccherate di gioielli.
Il gioiello fatto a mano occupa la dimensione dell'eterno e Lucio Spinozzi gioca con questo meccanismo di scala in ognuna delle sue opere, che spesso possono prendere forma in miniatura. Les objets flottent dans ma chambre, trop grands et trop petits, scriveva Jean Cocteau della pittura di Picasso. Chiunque abbia visto le enorrni sculture di Salvador Dalí esposte in Place Vendome a Parigi potrebbe concordare la definizione di scultura come gioiello ingrandito.
Se Lucio Spinozzi fosse un personaggio di un romanzo, sarebbe un monaco russo, o uno spagnolo picaresco, qualcuno da Joseph Conrad oppure il Gulliver di Jonathan Swift portato sullo schermo da Ingmar Bergman, con un dramma pieno di veemenza e sete per il fasto sfarzo e cerimoniosità di un'altra epoca. Bisogna immaginare un Tiziano Tibetano. Un'inveterata disposizione per il gioco di parole, come una forma di scultura linguistica, l'ha portato a osare di fondare un derisorio movimento d'arte tutto suo, il "Futilismo", nome che avrebbe fatto sorridere l'acerbo Samuel Beckett. Derivando da un atteggiamento ostinatamente situazionista, il movimento di Lucio Spinozzi non era solo un jeu de parole sul più famoso movimento italiano, il Futurismo, ma anche un tentativo di rilevare il dilemma insolubile e perenne in cui artisti giovani e vecchi si trovano.
Anche se lontano dall'essere un Duchampiano dottrinario, Lucio Spinozzi è tuttavia riuscito a oscurare la frontiera tra vita e arte, proprio come ha consigliato l'inventore del Readymade. Il suo domicilio e studio a Mestre sembrano confondersi uno con l'altro, arrivando a una curiosa simbiosi tra l'organico e il minerale. Una scala o un corridoio potrebbero contenere o essere contenuti in quadri, dipinti direttamente sui muri ed eventualmente strappati via con procedimenti conosciuti da lui solo; lavori in ogni fase d'assembramento o di disintegrazione deliberata si spargono nel ballatoio come nella cantina di un mago.
Nell'officina, dipinti coabitano con la voce della scultura. La cucina sembra una vetrina eteroclita, che sta per diventare a sua volta un gioco linguistico, mentre il guardaroba sembra il demanio dove la Venere di Willendorf tiene compagnia con William Blake vigilando su dei rottami galleggianti, a ogni apparenza salvati dal Bucintoro stesso. Fantasmi di sirene e divinità marittime distese contemplano quest'accumulazione soggettiva di bric-à-brac post-d'Annunziano. Manichini senza testa e machines cèlibataires derelitte montano la guardia del patio senza ombra.
"Questa muffa sta venendo bene".
Lucio Spinozzi mostra una tela che ha subito un processo diligentemente negletto, che ricorda il "triste Readymade" di Duchamp; poi si rivolge a una macchina d'ignota funzione:"Questo è qualcosa che ho sempre voluto restaurare".
Muffa, restauro: parole chiave nel vocabolario di Lucio Spinozzi.
L'artista invecchia le sue opere come altri invecchiano il vino o il formaggio in una caverna, queste opere funzionano come orologi organici, per autenticare: per misurare il passaggio del tempo. Il meccanismo di negletto sfida il restauro, anche nel senso politico della parola, vi è ripristino tradizionale di una facciata appannata dalle ingiurie degli anni; Leonardo da Vinci si sarebbe potuto divertire nella ricerca di cadavres exquises dipinti dalla mano della natura. In breve, è un provocante atteggiamento di un Dandy davanti alla temporalità.
In effetti, la muffa lavora con l'infinitesimale lentezza consonante a ciò che traccia il fatale orologio, la decomposizione d'ogni cosa nel tempo; mentre il restauro evoca la missione dell'artista di "restaurare ciò che è decaduto" (Riccardo St. Victor). E' la ricerca di una metafora adeguata per incorporare qualche cosa che è perduto, perduto per sempre, ma non dimenticato. L’atelier di Lucio Spinozzi è dunque un laboratorio dedicato a esperimenti sulla temporaneità, l'archeologia del caos.
Questo processo di lavoro sembra simile a quello del grande scrittore Predrag Matvejević - il cui ultimo libro è intitolato L'altra Venezia. In un'intervista con VeNews, l'autore bosniaco ha descritto il suo punto di partenza per un altro libro, Breviario Mediterreneo.
Come si può creare un nuovo approccio a questo luogo che è stato descritto tante volte? Lo stesso è vero per Venezia la città più fotografata nel mondo e la più dipinta, particolarmente dai suoi maestri. Ho tentato di dare voce al 'non detto', e poco a poco ho scoperto i temi. Ad esempio il rapporto tra ruggine e patine in un posto così umido, gli oggetti diventano rapidamente avviluppati da una patina che li protegge, o da una ruggine che li distrugge, una ruggine di colore brillante, come nei quadri di Tiziano. Le piante crescono nelle fessure dei muri... come vediamo ugualmente nelle opere di Tintoretto e Tiepolo”.
A chiunque conosca il lavoro di Lucio Spinozzi, questa "ruggine di colore brillante" è facilmente riconoscibile.
La laguna fertile bacino acquatico e base dell'immaginazione. Qualche anno fa, l'intimo rapporto di Lucio Spinozzi con la sua città natale l'ha portato in una vicenda degna delle Memorie di Casanova o di Da ponte, in cui ha rischiato la vita con un gruppo d'amici in una collisione notturna. Una serie di piccoli dipinti hanno presagito l'incidente; erano descritti da Daniel Rotbart in NY Arts Magazine in occasione di una mostra a New York nel 2001: "sono caotici, forti espressioni del mare, riflettono le forme amorfe" il peso, la trasparenza e l’opacità dell'acqua". ll "Caos" di Giuseppe Battista viene in mente: era terra, era mar…
Roma dorata; Venezia argentata. La qualità d'argento delle vedute notturne di Tiziano, umide e illuminate da una torcia (ll Martirio di San Lorenzo) si ritrova ancor oggi, anche se le torce sono le lampade elettriche così care ai Futuristi. Solo Venezia avrebbe potuto dare questa esatta contaminazione d'ingredienti per la formazione di una sensibilità come quella di Lucio Spinozzi. La luce da torcia non si riflette più su elmo e corazza però si può immaginare l'artista portare ambedue con una bravura da corsaro.
"Arriviamo sempre troppo tardi all'arte: quando l'importante è vivere l'arte".
Alan Jones
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Lucio Spinozzi è nato a Venezia nel 1957 e si è laureato all'Accademia di Belle Arti nel 1988, con una tesi su James Lee Byars, con cui ha partecipato nel 1989 alla mostra "Les Magiciens de la Terre" al Centre Georges Pompidou di Parigi. Riconosciuto per la sua attività orafa, la sua pittura, scultura e i suoi interventi avanguardisti, ha esposto a Venezia, Mestre, Milano, Roma, New York, San Francisco.
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