Perchè il politically correct rischia di uccidere l’arte
L'arte è libera? Forse no. Parola di Luca Beatrice
Joseph-Noël Sylvestre (Béziers, 1847 - Parigi, 1926), Sacco di Roma da parte dei Visigoti (24 agosto 410), 1890
Francesca Grego
26/06/2020
Paul Gauguin? Un riprovevole turista sessuale. Egon Schiele? Un pervertito. Balthus? Un pedofilo. John William Waterhouse? Un maschilista. E le loro opere? Non importa quanto siano belle, pregnanti o artisticamente valide. C’è chi le vorrebbe fuori dai musei. Non è d’accordo il critico e curatore Luca Beatrice, che dedica all’argomento il suo nuovo libro. Edito da Giubilei Regnani, Arte è libertà? Censura e censori al tempo del web non la manda a dire: il politically correct rischia di uccidere l’arte.
“Fin dal liceo ci hanno insegnato che l’arte è lo spazio della libertà. In una società democratica qualsiasi rappresentazione di fiction - che si tratti di cinema, di letteratura, di teatro o di arti visive - si giudica in termini estetici, non etici e tantomeno morali. E invece la situazione sta prendendo un’altra piega”, ha detto Beatrice ad ARTE.it.
Può portarci qualche esempio?
“Prendiamo la mostra Gauguin Portraits inaugurata lo scorso autunno alla National Gallery di Londra. È la stessa audioguida del museo a chiedere: è davvero il caso di continuare a esporre Gauguin, visto che verso il 1897-1898 ha fatto turismo sessuale in Polinesia? Nel 2018 i nudi di Schiele sono stati censurati sui mezzi pubblici di Londra e l’esposizione dei quadri di Balthus è stata ripetutamente contestata agitando lo spettro della pedofilia. Il caso Waterhouse è forse il più divertente: l’idea di rintracciare una visione sessista nelle opere di un elegantissimo pittore preraffaellita non può che far sorridere. Eppure per questo motivo il dipinto Ila e le ninfe non è più visibile nelle sale della Manchester Art Gallery”.
John William Waterhouse (1849 - 1917), Hylas and the Nymphs, 1896, Olio su tela, 132.1 x 197.5 cm, Manchester Art Gallery, Non esposto al pubblico
Che cosa è cambiato?
“Io sono nato nel ’61. Negli anni Settanta, quando andavo al liceo, la parola d’ordine era ‘vietato vietare’: qualsiasi tipo di censura era visto come un atto reazionario, per cui qualcuno usava addirittura la parola ‘fascista’. Oggi vige il politicamente corretto, quello che in America non distribuisce il film di Woody Allen a causa delle esternazioni di sua figlia, o che vorrebbe oscurare Via col vento perché la figura della nanny sarebbe razzista. Devi fare attenzione alle parole che usi: pensiamo a Vasco Rossi quando in Colpa d’Alfredo dice ‘è andata a casa con il negro la troia’. Lei crede che un cantante oggi potrebbe esprimersi così?”
Qual è il ruolo del web in tutto questo?
“Da quando Internet e soprattutto i social hanno aperto l’era della cosiddetta democrazia partecipata, il parere di uno storico dell’arte che, come me, fa questo mestiere da 35 anni potrebbe essere equiparato a quello della casalinga di Voghera. Chiunque si sente autorizzato a esprimere opinioni senza che nessuno glielo richieda, si scrivono petizioni sul web e vengono fuori scempiaggini galattiche tipo ‘Tiriamo giù le Piramidi perché sono state costruite dagli schiavi’. Siamo al delirio”.
François-Auguste-René Rodin (1840 - 1917), Le Baiser, 1881-1882 circa, Modello in gesso originale del gruppo scultoreo | Foto: Author Tylwyth Eldar (Own work) via Wikimedia Creative Commons | Censurata dall'algoritmo di Facebook
Anche la tecnologia fa la sua parte: nel 2017 l’algoritmo di Facebook ha censurato un’opera “innocente” come il Bacio di Rodin…
“Tra arte e censura c’è un rapporto di lunghissima data. Negli anni Novanta Made in Heaven di Jeff Koons è stato parzialmente oscurato, la rana crocifissa di Kippenberger ha avuto i suoi problemi, come pure Serrano. Ma allora il discorso era un altro: se è legittimo esporre alcune immagini, è altrettanto legittimo che qualcuno si offenda. Diverso è quando a decidere è un algoritmo. Chi lo costruisce non è uno storico dell’arte e non si pone il problema di riconoscere un’immagine pornografica da un’opera. Artisti come Giulio Romano o Gustave Courbet rischiano di farne le spese”.
Ha senso condannare un artista vissuto molto tempo fa alla luce della sensibilità attuale?
“In questo momento della storia se un uomo maturo fa sesso con una ragazzina commette un reato. Ma se torniamo indietro, anche solo all’Italia del dopoguerra, vediamo che un’adolescente era già considerata matura per avere figli. Quando sono nato mia madre aveva 17 anni. Naturalmente la situazione era diversa in città o nelle campagne, e così via. Le sfumature sono veramente tante. Chi condanna Gauguin o Waterhouse si rifiuta di prenderle in considerazione, come i cosiddetti Sentinelli di Milano che se la prendono con la statua di Indro Montanelli”.
Che opinione si è fatto in proposito?
“La cosa incredibile è che in tutti questi giorni nessuno ha mai citato l’autore della statua, uno scultore vivente che si chiama Vito Tongiani e abita a Pietrasanta. Questa è la dimostrazione che l’opera d’arte non viene giudicata dal punto di vista estetico: nessuno ha detto che è brutta. Si è usato il criterio della morale - parlare di etica è già troppo sofisticato”.
Che cosa pensa dell’iconoclastia che sta mettendo in subbuglio le nostre città?
“Sono preoccupato perché di solito queste cose accadono sotto le dittature, dove non c’è libertà di pensiero e di espressione”.
Cancellare le testimonianze di un passato sgradito non rischia di renderci impreparati al futuro?
“È la logica dei regimi, e infatti potevamo aspettarcelo quando è caduto Saddam Hussein. Io vivo a Torino che è piena di statue dei Savoia. Non vorrei che a qualcuno venisse in mente di tirarne giù qualcuna perché Vittorio Emanuele II era un puttaniere o per qualche altro motivo”.
Chi promuove una mostra parla spesso di arte “audace”, “spiazzante”, "anticonvenzionale". Perché il pubblico chiede di essere stupito e poi si scandalizza?
“Quando ho visto la mostra di Jeff Koons al Whitney Museum di New York e al Pompidou di Parigi, la stanza di Made in Heaven dove l’artista fa sesso con Cicciolina era la più affollata: il cartello ‘vietato ai minori di anni 18’ aveva sortito il suo effetto. In questo momento su Netflix il film più visto in Italia è 365 giorni: bruttino ma pruriginoso. Sono convinto che un’opera d’arte non possa durare quanto un cartellone pubblicitario: Lolita di Nabokov o Tropico del Cancro di Henry Miller sono letteratura, ma non tutti sono in grado di riconoscerla. Lo scandalo e l’indignazione si alimentano sul web, dove il parere di chi conosce veramente l’arte conta relativamente. Ma se lei ha male a un ginocchio va da un ortopedico, non si cura su Facebook. Qui il senso comune si è trasformato in un pensiero unico che fa paura”.
Dove porta questa strada?
“Il problema è capire se questo gioco andrà a condizionare la produzione di opere attuali. Si può eliminare Gauguin da un museo: è stato uno dei più grandi pittori dell’Ottocento e si farebbe torto alla storia, ma pazienza. Se invece togliamo all’arte contemporanea la sua capacità di rompere con le convenzioni, tanto vale non farla. Per il momento non è accaduto. Bisogna aspettare che quest’onda passi e nel frattempo trattarla con un po’ di ironia”.
Paul Gauguin (1848 - 1903), Contes barbares, 1902, Olio su tela, 131.5 x 90.5 cm, Essen, Museum Folkwang
“Fin dal liceo ci hanno insegnato che l’arte è lo spazio della libertà. In una società democratica qualsiasi rappresentazione di fiction - che si tratti di cinema, di letteratura, di teatro o di arti visive - si giudica in termini estetici, non etici e tantomeno morali. E invece la situazione sta prendendo un’altra piega”, ha detto Beatrice ad ARTE.it.
Può portarci qualche esempio?
“Prendiamo la mostra Gauguin Portraits inaugurata lo scorso autunno alla National Gallery di Londra. È la stessa audioguida del museo a chiedere: è davvero il caso di continuare a esporre Gauguin, visto che verso il 1897-1898 ha fatto turismo sessuale in Polinesia? Nel 2018 i nudi di Schiele sono stati censurati sui mezzi pubblici di Londra e l’esposizione dei quadri di Balthus è stata ripetutamente contestata agitando lo spettro della pedofilia. Il caso Waterhouse è forse il più divertente: l’idea di rintracciare una visione sessista nelle opere di un elegantissimo pittore preraffaellita non può che far sorridere. Eppure per questo motivo il dipinto Ila e le ninfe non è più visibile nelle sale della Manchester Art Gallery”.
John William Waterhouse (1849 - 1917), Hylas and the Nymphs, 1896, Olio su tela, 132.1 x 197.5 cm, Manchester Art Gallery, Non esposto al pubblico
Che cosa è cambiato?
“Io sono nato nel ’61. Negli anni Settanta, quando andavo al liceo, la parola d’ordine era ‘vietato vietare’: qualsiasi tipo di censura era visto come un atto reazionario, per cui qualcuno usava addirittura la parola ‘fascista’. Oggi vige il politicamente corretto, quello che in America non distribuisce il film di Woody Allen a causa delle esternazioni di sua figlia, o che vorrebbe oscurare Via col vento perché la figura della nanny sarebbe razzista. Devi fare attenzione alle parole che usi: pensiamo a Vasco Rossi quando in Colpa d’Alfredo dice ‘è andata a casa con il negro la troia’. Lei crede che un cantante oggi potrebbe esprimersi così?”
Qual è il ruolo del web in tutto questo?
“Da quando Internet e soprattutto i social hanno aperto l’era della cosiddetta democrazia partecipata, il parere di uno storico dell’arte che, come me, fa questo mestiere da 35 anni potrebbe essere equiparato a quello della casalinga di Voghera. Chiunque si sente autorizzato a esprimere opinioni senza che nessuno glielo richieda, si scrivono petizioni sul web e vengono fuori scempiaggini galattiche tipo ‘Tiriamo giù le Piramidi perché sono state costruite dagli schiavi’. Siamo al delirio”.
François-Auguste-René Rodin (1840 - 1917), Le Baiser, 1881-1882 circa, Modello in gesso originale del gruppo scultoreo | Foto: Author Tylwyth Eldar (Own work) via Wikimedia Creative Commons | Censurata dall'algoritmo di Facebook
Anche la tecnologia fa la sua parte: nel 2017 l’algoritmo di Facebook ha censurato un’opera “innocente” come il Bacio di Rodin…
“Tra arte e censura c’è un rapporto di lunghissima data. Negli anni Novanta Made in Heaven di Jeff Koons è stato parzialmente oscurato, la rana crocifissa di Kippenberger ha avuto i suoi problemi, come pure Serrano. Ma allora il discorso era un altro: se è legittimo esporre alcune immagini, è altrettanto legittimo che qualcuno si offenda. Diverso è quando a decidere è un algoritmo. Chi lo costruisce non è uno storico dell’arte e non si pone il problema di riconoscere un’immagine pornografica da un’opera. Artisti come Giulio Romano o Gustave Courbet rischiano di farne le spese”.
Ha senso condannare un artista vissuto molto tempo fa alla luce della sensibilità attuale?
“In questo momento della storia se un uomo maturo fa sesso con una ragazzina commette un reato. Ma se torniamo indietro, anche solo all’Italia del dopoguerra, vediamo che un’adolescente era già considerata matura per avere figli. Quando sono nato mia madre aveva 17 anni. Naturalmente la situazione era diversa in città o nelle campagne, e così via. Le sfumature sono veramente tante. Chi condanna Gauguin o Waterhouse si rifiuta di prenderle in considerazione, come i cosiddetti Sentinelli di Milano che se la prendono con la statua di Indro Montanelli”.
Che opinione si è fatto in proposito?
“La cosa incredibile è che in tutti questi giorni nessuno ha mai citato l’autore della statua, uno scultore vivente che si chiama Vito Tongiani e abita a Pietrasanta. Questa è la dimostrazione che l’opera d’arte non viene giudicata dal punto di vista estetico: nessuno ha detto che è brutta. Si è usato il criterio della morale - parlare di etica è già troppo sofisticato”.
Che cosa pensa dell’iconoclastia che sta mettendo in subbuglio le nostre città?
“Sono preoccupato perché di solito queste cose accadono sotto le dittature, dove non c’è libertà di pensiero e di espressione”.
Cancellare le testimonianze di un passato sgradito non rischia di renderci impreparati al futuro?
“È la logica dei regimi, e infatti potevamo aspettarcelo quando è caduto Saddam Hussein. Io vivo a Torino che è piena di statue dei Savoia. Non vorrei che a qualcuno venisse in mente di tirarne giù qualcuna perché Vittorio Emanuele II era un puttaniere o per qualche altro motivo”.
Chi promuove una mostra parla spesso di arte “audace”, “spiazzante”, "anticonvenzionale". Perché il pubblico chiede di essere stupito e poi si scandalizza?
“Quando ho visto la mostra di Jeff Koons al Whitney Museum di New York e al Pompidou di Parigi, la stanza di Made in Heaven dove l’artista fa sesso con Cicciolina era la più affollata: il cartello ‘vietato ai minori di anni 18’ aveva sortito il suo effetto. In questo momento su Netflix il film più visto in Italia è 365 giorni: bruttino ma pruriginoso. Sono convinto che un’opera d’arte non possa durare quanto un cartellone pubblicitario: Lolita di Nabokov o Tropico del Cancro di Henry Miller sono letteratura, ma non tutti sono in grado di riconoscerla. Lo scandalo e l’indignazione si alimentano sul web, dove il parere di chi conosce veramente l’arte conta relativamente. Ma se lei ha male a un ginocchio va da un ortopedico, non si cura su Facebook. Qui il senso comune si è trasformato in un pensiero unico che fa paura”.
Dove porta questa strada?
“Il problema è capire se questo gioco andrà a condizionare la produzione di opere attuali. Si può eliminare Gauguin da un museo: è stato uno dei più grandi pittori dell’Ottocento e si farebbe torto alla storia, ma pazienza. Se invece togliamo all’arte contemporanea la sua capacità di rompere con le convenzioni, tanto vale non farla. Per il momento non è accaduto. Bisogna aspettare che quest’onda passi e nel frattempo trattarla con un po’ di ironia”.
Paul Gauguin (1848 - 1903), Contes barbares, 1902, Olio su tela, 131.5 x 90.5 cm, Essen, Museum Folkwang
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